C’è una scena nel film Miss Marx di Susanna Nicchiarelli che fa pensare a tutte le volte in cui le donne si ritrovano a parlare da sole davanti a un uomo. Qui, fatalità, lui dorme, mentrelei lo guarda, gli deterge la fronte e gli parla come se la stesse ascoltando. Quello che gli racconta è una storia di donne dominate dagli uomini, organizzate per essere asservite al potere di un padre un marito un uomo che ha sempre avuto bisogno di loro. In effetti, mentre gli parla sottovoce della storia di tutte le storie, quella di chi dentro e fuoricasa governa il mondo economicamente e politicamente, si prende cura di lui, gli dà da mangiare, lo conforta, lo accudisce, lo accoglie quando torna da lei, lo capisce quando ama altre donne.

Insomma, tiene in vita quello che fuori vorrebbe morto. Eleanor Marx è una donna dell’800, ha ancora nelle orecchie la lotta di classe che quel padre con cui deve fare i conti aveva teorizzato, eppure comincia a capire che la sottomissione delle donne è una questione politica e economica non solo in nome di una parità salariale ma perché prima e dopo il lavoro fuori casa quelle donne si sono fatte ore di lavoro di cura dentro casa. E questo è il nodo del film e forse quello in cui resta appesa ancora la vita delle donne: il loro stare privato e pubblico, personale e politico si sarebbe detto un tempo, come se le donne dovessero scegliere sempre se essere figure dell’intimità e dell’ombra o della piazza e della riconoscibilità pubblica. Come se l’erotico con cui vivono la parte privata della loro vita non potesse avere le stesse dinamiche di quell’erotico con cui vivono fuori.

Parlo di erotico non come sentimento ma come potenza, direbbe Audre Lorde, e quindi come potere, quello che rende potenti e quindi pericolose le donne. Quello che fa mettere insieme il desiderio, la libertà sessuale, identitaria, relazionale, professionale, la volontà di esserci senza sottostare a stereotipi seduttivi vecchi di secoli che fanno sempre le donne subalterne al giudizio, alla critica, anche solo allo sguardo e quindi al potere degli uomini–che siano padri, mariti, ma pure figli, capi, un qualunque uomo insomma un maschio, inventore della grande storia umana che è il patriarcato, che lo vede al centro del mondo, tutto quanto, animale e vegetale, con la sua presunta e tanto ben raccontata superiorità. Carla Lonzi, siamo nel 1970, si domanda come mai ancoraper le donne la lotta di classe sia più cruciale dell’oppressione delle donne.

Cito: il lavoro domestico, il lavoro riproduttivo, di cura, è la prestazione che ha permesso e permette ancora al capitalismo privato e di stato di sussistere. Prestazione, sì, come direbbe Silvia Federici, quella che si consuma nelle cucine e nelle camere da letto. Forse lo spazio pubblico ancora così vuoto di donne potenti, consapevoli, femministe, è vuoto perché proprio non le amiamo queste donne, non le vogliamo fuori con quella stessa carica erotica, che vuole dire il loro amore per la realtà, a inventarsi una nuova visione dei rapporti di potere.

Quell’eros che muove dentro e fuori la vita di Eleanor è sempre quel mitico eros che nasce dal caos. È indisciplinato, furioso, impetuoso. E non è una questione di ragione e sentimento, come ci hanno fatto credere teorizzando che le donne agiscono mosse da ipersensibilità e indole sentimentale come se la ragione stesse dalla parte opposta, fosse antagonista al sentire, la testa tagliata dal corpo, il cervello imprigionato nel cranio. Eleanor sfida il partito, la società, la famiglia, il giudizio di amici, persone care, non cede al principio dell’opportunità perfino politica di lasciare l’uomo che dice di amare, non in nome dell’amore, ma in nome della libertà amorosa e sessuale. Sa chi è l’uomo che ama, lo conosce, non è che sta lì come una scema a guardarlo come fosse un padreterno.

Nella scena in cui lo osserva da una finestra lo descrive bambino, leggero fino alla inconsistenza, senza peso morale fino all’insulto volontario involontario? della stanza ricolma di fioripresi per lei coi soldi del partito-giusto per dare conto di quanto distanti fossero. Ma cos’è che le piace, quindi, cosa la trattiene dal disamorarsi, dal liberarsene? È ancora la vittima di una cultura che mette le donne nella posizione inclinata, incline ad accettare tutto, a perdonare tutto? O è quel che vuole da sé, più che da lui, che conta? Perché c’è una cosa che nel film, e pure nella vita, ritorna. Dopo una danza che sa di menade nella sua folle corsa super la montagna, dopo aver celebrato quel pezzo dionisiaco della vita sulle note punk di una musica che le strappa via scarpe e abiti borghesi, Eleanor si veste tutta di fiori e si suicida.

Cosa non è più abitabile da quel corpo che fino ad allora aveva scelto per sé la propria vita? Cosa ne è di quell’eros che le aveva dato potere dentro e fuori casa? Forse l’epoca, forse una storia di necropolitica patriarcale, che per secoli ha colonizzato, e colonizza, il pensiero, il desiderio, il destino di ogni corpo, di ogni essere vivente, ha vinto, e allora anche darsi la morte diventa un gesto di libertà, di autodeterminazione.

Eppure così Eleanor si toglie di scena, toglie il disturbo, toglie il suo peso, la sua voce dal mondo. Il suo eros si fa thanatos e insomma pure lei si mette a riprodurre il vecchio modello amore morte. Di donne suicide è piena la storia, di solito sono quelle che hanno parlato, hanno scosso modelli sociali e culturali. Più o meno la narrazione ufficiale ha definito così tutte quelle bruciate, rinchiuse, affamate, ospedalizzate, incarcerate, zittite con la violenza della legittimità di quel potere che non ha mai dovuto giustificarsi. Donne che si adattano, che sopravvivono benissimo dentro scene private e pubbliche dove governa il sistema gerarchico e violento del patriarcato, che anzi si siedono comode sulle stesse sedie senza modificarne la forma, la disposizione, che credono basti arrivare ad occuparle perché qualcosa di quel potere cambi, che vivano pure.

Perché donne suicide come Eleanor di solito le ha uccise il sistema in cui erano nate e vissute, perché magari avevano avuto la voglia e il coraggio di non sedersi affatto. Non le volevano, e non le vogliono, al mondo. Tutti preoccupati che quel mondo salti. Non salterà il mondo se l’uomo non avrà più l’equilibrio psicologico basato sulla nostra sottomissione. Carla Lonzi andrebbe proprio riletta, e alla sua ironica e potentissima voce andrebbe affiancata quella che grida all’orecchio: CHE SALTI PURE!