«Hamas sa che deve governare oltre due milioni di palestinesi ed è consapevole che la popolazione di Gaza non può sostenere il peso di altre offensive israeliane. E, altrettanto importante, Hamas ha spostato la sua attenzione sulla Cisgiordania, sa che il controllo su quel territorio del suo rivale Abu Mazen si è indebolito e sta rafforzando le sue posizioni». Yusef, ha 23 anni e solo da un paio si occupa di informazione. A Gaza però si cresce in fretta e con poche frasi, come il più esperto degli analisti politici, spiega i motivi per i quali il movimento islamico Hamas, che controlla Gaza dal 2007, non è intervenuto con il suo braccio armato, le Brigate Ezzedin al Qassam, durante l’offensiva aerea israeliana Breaking Dawn contro Gaza, lasciando all’organizzazione cugina, più piccola, il Jihad islami, il peso del confronto armato con Israele. Hamas ha tenuto chiusi i suoi arsenali con i razzi a lunga gittata anche quando il bilancio di palestinesi uccisi dai bombardamenti – 45 – è rapidamente salito includendo 16 bambini e quattro donne e anche due dei suoi combattenti. «In realtà – aggiunge Yusef – nei tre giorni di attacchi israeliani, in Hamas c’è stato un acceso confronto tra coloro che volevano unirsi al Jihad e chi, a cominciare dal leader a Gaza, Yahya Sinwar, invitava a non lasciarsi coinvolgere».

L’ingresso in campo di Hamas avrebbe significato un’altra guerra ampia a Gaza. Il passo indietro è stato argomento di molte analisi e servizi giornalistici in Israele dove i commentatori spiegano che anche il governo di Yair Lapid e i vertici militari hanno fatto la loro scelta: non attaccare il principale movimento islamista palestinese per evitare uno scontro totale a Gaza che al premier israeliano non interessava. Meglio un’operazione militare rapida e letale, ovviamente solo per i palestinesi, da poter spendere nella campagna elettorale e tentare di scalfire lo status di Mr.Sicurezza di cui gode il rivale Benyamin Netanyahu in testa nei sondaggi.

In casa palestinese aggiungono che per capire la posizione di Hamas occorre tenere presente anche le differenze esistenti con il Jihad islami. Le due organizzazioni hanno un nemico comune, Israele, e ufficialmente durante le crisi si incontrano in una war room in cui prendono insieme decisioni militari e politiche. Sono però anche due forze abbastanza diverse, con divisioni ideologiche che impediscono loro di unirsi. Il Jihad è più di tutto una formazione armata, che vuole combattere contro Israele e i «regimi arabi e islamici corrotti». Hamas, come ramo della Fratellanza Islamica, invece non è soltanto una organizzazione militare. È un movimento che lavora diffusamente nella società palestinese e che intende creare di uno Stato sulla base di principi religiosi. Vede perciò nella creazione di istituzioni civili, nella ricostruzione di Gaza, sua roccaforte, e nel miglioramento delle condizioni di vita dei suoi abitanti una strada per il raggiungimento dei suoi obiettivi. Per questo sono complessi i suoi rapporti con il Jihad di cui non condivide sempre l’operatività militare che considera «impulsiva».

Hamas non rinuncia alla «resistenza armata islamica» – al contrario e i suoi comandanti militari hanno diritto di parola nelle decisioni politiche più importanti – però in questa fase pensa di dover più di ogni altra cosa amministrare Gaza, consolidare il suo potere e gestire le relazioni «diplomatiche» che mantiene nella regione, cercando di non mettere in difficoltà con le sue scelte l’Egitto, con cui mantiene relazioni complesse, e il Qatar – suo sponsor principale e finanziatore – che dietro le quinte ha rapporti con Israele ed è un alleato di ferro degli Stati uniti. Considerando che la riconciliazione nazionale palestinese resta un miraggio – sia Abu Mazen e il suo partito Fatah che i dirigenti di Hamas sembrano aver rinunciato all’idea di una leadership unita palestinese -, il movimento islamico si comporta come se Gaza fosse già una porzione del suo Stato. E ha bisogno di fondi da investire in un territorio sotto blocco israeliano dove gran parte della popolazione è in povertà. Secondo Israele Hamas investirebbe le sue risorse solo nelle Brigate Ezzedin al Qassam. A Gaza invece spiegano che negli ultimi tre mesi, ad esempio, l’esecutivo di Hamas è stato impegnato a calmierare i prezzi dei generi di prima necessità, del carburante e del gas da cucina aumentati a causa dell’inflazione globale e della guerra Russia-Ucraina. Ha dovuto impiegare circa 25 milioni di dollari derivanti da «dazi doganali» (richiesti ai valichi), imposte e tasse. Il ministero delle finanze, con le casse vuote, ha poi comunicato che i circa 50mila dipendenti pubblici non riceveranno lo stipendio. Migliaia di famiglie ora sono senza reddito e attendono gli aiuti del Qatar. A ciò si aggiungono le difficoltà quotidiane per la poca elettricità disponibile, la scarsità di acqua potabile e per altri servizi pubblici inesistenti. In questo quadro una nuova guerra a Gaza sarebbe stata fatale.