Il sistema democratico come inteso in Occidente ai fini di una verifica periodica, più o meno fedele, del consenso e della rappresentatività, non è ancora una prassi collaudata e generalizzata in Africa.

La svolta degli anni Novanta ha chiuso il periodo segnato e in parte falsato dalle modalità della decolonizzazione. Sono cambiate le Costituzioni. Si vanno imponendo nuovi ceti che in politica e in economia mettono a frutto le loro conoscenze, le loro ambizioni e la loro disponibilità a seguire l’ordine prevalente dopo la fine del bipolarismo. La mutazione è stata sollecitata in parte dalle condizionalità delle istituzioni finanziarie internazionali ma determinanti si sono rivelati appunto i processi interni, siano stati essi pacifici (pluralismo ed elezioni) o violenti (conflitti di varia intensità e durata).

Il mercato globalizzato – che perpetua il modo di produzione coloniale – ha prodotto nei casi migliori più crescita, un po’ di sviluppo e forti sperequazioni. Oltre alle gerarchie più propriamente interne, in molti paesi africani alle trasformazioni si è accompagnata una nuova forma di “dipendenza” per la difficoltà di contare su un accumulo proprio e quindi per la necessità di adattarsi alle esigenze dei capitali di provenienza esterna.

Si è arrivati a fenomeni di vera e propria «ricolonizzazione», soprattutto negli ex-possedimenti francesi dell’Ovest. Gli Stati uniti hanno aumentato e intensificato la propria presenza o influenza perseguendo anzitutto il controllo del territorio ai fini del contrasto al jihadismo. La stessa Italia, nonostante il proposito enunciato da Renzi alla Conferenza Italia-Africa di abbandonare ogni nostalgia per il passato (coloniale e forse neo-coloniale), adottando se mai una nostalgia per il futuro (una qualche forma di partnership), tratta la Libia come una res nullius.

In queste condizioni l’Africa, il continente proletarizzato per eccellenza, appare silente, immune dal fenomeno di opposizione frontale alle forze dominanti, interne ed esterne, più per mancanza di mezzi che di motivazioni.

Ai tempi delle Primavere arabe, il contagio nell’Africa sub-sahariana fu frenato sia dalle misure di repressione preventiva assunte dai rispettivi governi sia da una specie di auto-restrizione nel timore che un rovesciamento troppo brusco del regime potesse innescare una disgregazione dello stato. D’altronde, con qualche eccezione, i «coccodrilli» al di là del Sahara erano già stati rimossi, con poche eccezioni (Camerun, Zimbabwe) o si era passati alla promozione dei figli (Togo, Gabon, lo stesso Congo). Molto più insopportabile, a confronto, era l’immobilismo dei regimi di Mubarak e Ben Ali e naturalmente di Gheddafi.

Negli stati più grandi e strutturati si notano tuttavia i sintomi di tensioni che le istituzioni faticano a gestire. In Nigeria non c’è solo l’insorgenza di Boko Haram, peraltro in fase calante sia per il coordinamento accettato dalla Nigeria con il blocco regionale assistito anche militarmente dalla Francia sia perché un presidente uscito dall’aristocrazia musulmana del Nord ha tolto spazio alla propaganda anti-cristiana e anti-sudista. Restano vecchi mali come la corruzione delle élites, l’abbandono delle terre, l’enorme disparità di cui malgrado tutto soffre il Nord rispetto al modello di sviluppo che il Sud, più segnato dall’esperienza coloniale, ha imposto come immagine di marca al paese nel suo insieme.

 

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Il presidente ugandese Yoweri Museveni

 

 

Il Congo è in attesa di un’elezione a cui Kabila vorrebbe partecipare per un «terzo mandato» in violazione della legge e sfidando una società civile che chiede maturità e alcuni degli alleati, Stati Uniti (di Obama) in testa. In Burundi il presidente ha già varcato il Rubicone. In Ruanda il meno contestato ma non meno trasgressivo Kagame è avviato sulla stessa strada. I mandati di Museveni, presidente dell’Uganda dal 1986, non li conta più nessuno. Il boom economico coincide in Etiopia con scontri etnici che nascondono una competizione per le risorse,

Imprevedibile è l’esito della perdita di consenso dell’African National Congress in Sud Africa. Molte delle riforme che ci si aspettava dopo l’apartheid sono state rinviate sine die.

Dopo la presidenza carismatica di Mandela c’è stato il doppio mandato conservativo di Mbeki: il suo feeling con il presidente nigeriano dell’epoca permise un duopolio che combinava a livello continentale identità e inclusione. Alla lunga la Nigeria ha fatto pesare però le sue maggiori dimensioni e la sua «negrità».

Lo strappo si è accentuato con l’accesso al potere di Jacob Zuma. Se con la sua ascesa è venuta meno ogni minaccia di separatezza degli zulu, il personaggio Zuma – davanti a decisioni non più prorogabili a vent’anni dalla svolta del 1994 – sta destabilizzando il quadro politico.
Il governo dell’Anc è alle prese, semplificando, con un’opposizione alla sua destra (la crescente convergenza fra l’élite economica nera e i bianchi e i coloureds del Capo e più in generale delle città maggiori) e con il distacco ormai consumato della sinistra che si richiama al sindacato e all’ex componente comunista. Sarebbe grave se l’Anc venisse ormai percepito come una «casta» e non più come l’erede del movimento di liberazione.

Per la difficoltà di riprodurre le correnti di opposizione al «potere» che stanno scuotendo molti paesi dell’Occidente, sono gli stessi stati in Africa a interpretare questo ruolo. Un chiaro segnale è l’abbandono da parte del Sud Africa e, sul suo esempio, di altri paesi (Burundi e Gambia, che potrebbero essere imitati da Kenya e Uganda) della Corte penale internazionale, vista come uno strumento della globalizzazione che con prove vere o false colpisce qua e là solo e sempre dirigenti africani.

La Corte dovrebbe garantire gli africani come cittadini. Ma finora ha prevalso una discriminazione tutta a danno di un’Africa-paria (9 indagini fra le 10 all’esame della Corte si riferiscono a regimi africani). Il Kenya avrebbe in programma di presentare una mozione per l’uscita di tutti i 34 membri africani malgrado la strenua resistenza di personaggi influenti come Desmond Tutu e Kofi Annan.

Dirigenza e opinione pubblica non sono più disposte a farsi dettar legge. L’Unione africana non arriva a tutto. Come si dice in letteratura, se non c’è la possibilità di avere voice non resta che l’exit option come alternativa.