Per cercare il senso degli zoo, ammesso che il fine giustifica i mezzi, è necessario monitorarne il funzionamento e interrogarli senza pregiudizi sulla loro utilità, evitando di finire come gli struzzi delle caricature, che nascondono la testa sotto la sabbia per non guardare ciò che spiace. È trascorsa così una giornata all’interno del più grande d’Italia. In bilico tra il sacro monito di Garrincha, che vinti i mondiali di calcio del 1958 chiese in premio al presidente brasiliano di liberare uccelli da una voliera, e le laiche motivazioni della scienza, chiamata a porre rimedio ai mali da noi causati.

Milleduecento animali: centocinquanta specie in diciassette ettari. È il Bioparco di Roma, inaugurato tra gli alberi di Villa Borghese nel 1911, cinque mesi prima del Vittoriano.

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Una teca del Museo dei Crimini Ambientali

 

«Dopo droga, armi e il commercio di esseri umani, il traffico di fauna e flora, insieme allo smercio di reperti archeologici e beni culturali, rappresenta il quarto mercato illegale per fatturato e numero di persone coinvolte», spiega Federico Coccia, presidente della Fondazione Bioparco. «Il 6 marzo del 2014 – aggiunge – abbiamo aperto il Museo dei Crimini Ambientali, unico nel suo genere in Europa. Nei suoi spazi, tra l’altro, esponiamo zanne e pelli ricavati dalla barbara uccisione di animali».

C’era una volta l’intrattenimento

I giardini zoologici in Europa rispondono a una direttiva della European Association of Zoos and Aquariums, avallata da Iucn e Wwf: le maggiori associazioni ambientaliste. «I tre elementi che introduce sono la conservazione, la didattica e la ricerca», chiarisce il direttore scientifico Fulvio Fraticelli. Prima della sua entrata in vigore, gli zoo dovevano soprattutto intrattenere. «Erano musei di viventi. Il nostro – dice Fraticelli -, prima della guerra ospitava numerose antilopi africane, che nell’ottica del fascismo dovevano rappresentare l’Impero e la potenza italica».

La direttiva comunitaria è del 1999; l’Italia l’ha recepita nel 2005, aggiungendo al ritardo l’interpretazione vaga di alcuni passaggi. «La didattica è ormai la strada principale per arrivare alla conservazione – continua Fraticelli, raccontando il new deal introdotto nel 1999 -. L’evoluzionista Edward Osborne Wilson ha detto che “nessuno sarà disposto a proteggere un ecosistema se non lo conosce bene”. La divulgazione è pertanto un passaggio obbligato per ottenere quel coinvolgimento, anche emotivo, che convinca l’uomo a rinunciare allo sviluppo illimitato in cambio della conservazione. La salvaguardia della biodiversità non può non passare attraverso uno sviluppo sostenibile e antagonista a una società capitalistica che miri allo sfruttamento della natura».

Inutile quindi parlare della conservazione di una specie, se non l’abbiamo studiata. Uno zoo moderno deve puntare sulla ricerca. È tuttavia possibile analizzare in cattività, oltre ai dati fisiologici, anche il comportamento degli animali? «Ho dubbi sull’utilità dei giardini zoologici per studi comportamentali – risponde Fraticelli -. Forse sono possibili nel caso di organismi con una struttura neurologica semplice, come rettili e anfibi. Se però osserviamo primati o felini, è evidente quanto il loro comportamento sia condizionato dalla situazione in cui vivono e dai pregressi, che spesso neanche conosciamo. I nostri scimpanzé, per esempio, provengono da sequestri: possiamo solo ipotizzare cosa abbiamo subito».

Scopo di uno zoo, infine, è il captive breeding: riproduzioni controllate finalizzate al rilascio. «Le esperienze passate non sono state sempre positive – dice Fraticelli -. Soltanto l’11 % dei progetti ha dato risultati concreti. Molto si fece per reintrodurre l’orice nella Penisola araba. L’esperimento è tuttavia fallito per un motivo banale: non sono state rimosse le cause dell’estinzione. L’orice era scomparso perché sottoposto a un prelievo venatorio eccessivo da parte degli sceicchi locali. Gli ultimi esemplari, recuperati negli zoo, furono fatti riprodurre in quantità. I nuovi nati furono liberati con successo ma, appena la popolazione selvaggia riprese piede, gli sceicchi ricominciarono a cacciare».

Ambasciatori degli animali liberi

È in natura che si lavora alla vera conservazione. «I giardini zoologici – dice ancora Fraticelli – devono presentare i propri animali come gli ambasciatori di quelli che vivono liberi. Puntiamo sull’emozione provata dalle persone che hanno visto da noi animali della savana africana affinché, usciti da qui, siano concordi nell’appoggiare azioni intraprese dalla comunità internazionale per la conservazione della reale savana africana, ormai a grande rischio, per esempio, per le coltivazioni di palma da olio volute dalla Cina».

Al Bioparco si stanno dedicando con attenzione crescente agli anfibi: la classe di vertebrati più a rischio. La prima causa di estinzione è la globalizzazione: il killer chitrite, un fungo microscopico originario del Sud-Est Asiatico, si sta diffondendo ovunque veicolato probabilmente dalle suole dei viaggiatori. Anche le altre sono note: i cambiamenti climatici; la diminuzione della disponibilità d’acqua e il passaggio dalla stagionalità delle piogge alla loro concentrazione intensiva; la frammentazione del territorio con il suo corollario di anfibi migratori schiacciati sulle strade.

 

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L’euprotto sardo

 

«Noi stiamo lavorando con due specie – spiega Fraticelli -: l’euprotto sardo è un tritone endemico della Sardegna minacciato dall’introduzione di pesci alloctoni, soprattutto trote. In collaborazione con enti isolani e l’Università di Roma Tre, abbiamo prelevato in natura degli individui che sono stati fatti riprodurre in una situazione controllata. Abbiamo così ottenuto oltre cento esemplari, che riporteremo nelle zone di origine per un restocking».

L’altra operazione, in collaborazione con Roma Tre e il Parco Regionale di Monte Navegna, riguarda l’ululone appenninico, un rospetto riconoscibile perché ha la pancia arancione e nera: sono colori aposematici, che anche nella cartellonistica degli umani indicano un pericolo.

«L’ululone sembra puzzi di aglio – racconta Fraticelli – e quando è disturbato si mette pancia all’aria. Invece di gracidare, ulula. Depone le uova in piccole pozze di acqua, che ormai rischiano di prosciugarsi prima della completa metamorfosi dei girini. Abbiamo prelevato quelle che altrimenti sarebbero andate perdute e le abbiamo fatte sviluppare in laboratorio. È andato tutto bene: dopo un anno, abbiamo ritrovato i rospetti rilasciati».

Nel Bioparco l’esistenza procede naturalmente per quelle specie che non hanno apprendimento e per cui tutto è innato. Chi insegna invece a un grande mammifero come deve comportarsi? «Uno dei nostri elefanti – dice Fraticelli – parlava una lingua non sua. Avevamo un maschio di elefante africano, un regalo del presidente del Gabon a Pertini, che non potevamo più tenere: gli spazi non erano idonei. Lo abbiamo quindi mandato in Germania, dove si sono accorti che emetteva vocalizzazioni da elefante indiano: aveva sempre vissuto a contatto con femmine di questa specie».

È una prova feroce di quali condizionamenti possano subire gli animali nei giardini zoologici e di quanto sia impossibile riportarli in libertà. «Gli elefanti sono macchine nate per il movimento; da fermi soffrono – dice il curatore Yitzhak Yadid – Camminano in media per 20 km al giorno. Negli zoo, arrivati a 40 anni iniziano a ammalarsi. Sono gli unici animali che in cattività vivono meno».

Le due elefantesse inseparabili

Prima il Bioparco ospitava due elefantesse: Nelly e Sofia, arrivate giovanissime nel 1972 e probabilmente strappate alla madre in natura, quando la legge ancora lo permetteva, nei dintorni della città indiana di Hassan. Le comprò lo zoo di Torino. «Sono cresciute insieme e avevano un legame indissolubile», dice Yadid. «Non era possibile tenerle separate: quando una sentiva la porta scorrevole che stava per chiudersi, nelle fredde notti d’inverno in cui all’aperto non potevano dormire, subito correva nella stalla dell’altra. Qualsiasi cambiamento nell’arredo, qualsiasi rumore sconosciuto bastava a dissuaderle dall’entrare. Per convincerle provammo con un trucco, lasciando dentro del fieno. Il risultato? Si avvicinava solo una delle due per prenderlo e trascinarlo fuori, dove mangiavano entrambe. Quando Nelly è morta, è stato difficile portarla via perché Sofia non la lasciava». Il Bioparco si è allora mobilitato per trovarle una nuova compagna.

È arrivata Lakshmi, sequestrata da un circo che aveva tentato di sostituire illegalmente un elefante morto. Lakshmi, anche lei di quarant’anni, ha però un carattere molto forte e non ha accettato la convivenza con Sofia. Forse la considera timida e socievole, troppo dipendente dagli umani, come se fosse un cane con la proboscide. «Le due non possono avere un contatto fisico», dice Yadid. Una sottile barriera le separa. «Ma, almeno, Sofia non è più sola».