Giorgio Vacchiano, ricercatore all’Università statale di Milano, ha scritto La resilienza del bosco. Storie di foreste che cambiano il pianeta. Nel 2018 la rivista Nature lo ha indicato fra i migliori scienziati emergenti. Siamo davvero entrati nell’era del Pirocene – più arida, più calda e con più incendi? L’immagine è efficace. In questa nuova fase la tendenza media è all’aumento della superficie bruciata. Sembra essersi instaurato un circolo vizioso: più incendi, più anidride carbonica liberata, più cambiamenti climatici, più fuoco. Nel 2019 un lavoro scientifico ha confrontato le immagini dei satelliti ritransitati sulle aree percorse dal fuoco nell’America del Sud. Si è stimata una superficie colpita dagli incendi pari a 30 milioni di ettari; più della metà, forse due terzi nel bacino amazzonico.

E nel 2020 la situazione in Amazzonia è già peggiore rispetto all’anno scorso nello stesso periodo. In Australia fra gli ultimi mesi del 2019 e i primi del 2020 è bruciata una superficie grande come il Portogallo. Gli studi per questi ultimi decenni e le proiezioni fino a fine secolo indicano un’impennata stabile nelle superfici percorse dagli incendi. Una causa sono certamente i cambiamenti climatici.

David Bowman, esperto di pirogeografia all’università della Tasmania, ha scritto: «A lungo non abbiamo colto la possibilità di affrontare la crisi con una vera de-carbonizzazione. Dunque ormai dobbiamo anche adattarci». Perché i cambiamenti climatici sono un fattore causale comune alla «pandemia» di incendi?

Aumenta la probabilità di avere siccità intense. Inoltre le temperature più elevate esasperano l’effetto di perdita di acqua nella vegetazione dovuta alla mancanza di piogge. In Australia i cambiamenti climatici hanno agito sia direttamente (l’aria si è riscaldata in media di almeno un grado nell’ultimo secolo) sia indirettamente, influenzando le grandi strutture meteorologiche dell’emisfero sud che hanno generato la straordinaria siccità, mai vista prima da un secolo. Per questo sono in fiamme anche ecosistemi forestali tradizionalmente più umidi e raramente interessati dal fuoco, e non solo le foreste di eucalipto e la savana semi arida con alberi bassi.

E le foreste boreali, e l’Amazzonia?

Le zone artiche si stanno riscaldando a un ritmo intenso: dall’era preindustriale, la Siberia ha preso quattro gradi. L’Amazzonia è stata un caso peculiare. Là il picco di incendi si deve all’azione virulenta degli umani. Il fuoco è uno degli strumenti per la deforestazione, che per la prima volta da un decennio nel 2019 ha nuovamente superato i 10 mila km quadrati nella sola Amazzonia brasiliana.

Nei diversi scenari, che cosa innesca il fuoco che poi fattori riconducibili anche ai cambiamenti climatici propagano?

In Italia le cause sono quasi sempre umane: dolo o colpa. In Australia gli incendi più grandi tendono a essere causati dai fulmini. Ma il problema non è chi o che cosa accende la fiamma, piuttosto i fattori che la propagano. Le fiamme alimentate dalla siccità sono spinte dal vento sulle piante vicine. L’incendio si auto-sostiene. In Brasile spesso l’incendio è solo l’ultima fase della deforestazione per cause economiche (estrazione, creazione di pascoli e campi di soia, legname), un processo che inizia con il degrado della foresta. Quello che resta lo bruciano. Nel bacino del Congo ogni anno la tecnica agricola del taglia e brucia avvia gli incendi, tanti, ciascuno su superfici limitate. Ricordiamo poi che per la savana e la prateria, nei vari continenti, il fuoco è una costante, e la dinamica è relativamente naturale.

Perché anche in paesi ricchi come l’Australia non si riesce a fermare gli incendi, malgrado i mezzi economici e decine di migliaia di volontari coraggiosi?

Per estinguere un incendio bisogna eliminare il combustibile, il che richiede le squadre di terra. L’acqua e il ritardante lanciati dai mezzi aerei possono solo rallentare la combustione. Incendi di chioma intensi possono generare fiamme alte decine metri, e con il vento la vegetazione secca propaga il fuoco anche a 20-25 km orari. Inoltre si può sviluppare una potenza fino a 100.000 kW per metro lineare di fronte: le squadre di terra non possono operare in sicurezza già con intensità di 4000 kW per metro. Impossibile star lì. Gli incendi si affrontano in tre modi: prevenzione, estinzione, emergenza (fuga, evacuazione, difesa). Siamo tutti grati agli eroici lavoratori e volontari vigili del fuoco che ci proteggono, ma spegnere è l’attività più difficile e con i mega-incendi del «Pirocene» lo sarà sempre di più. Occorre dedicare risorse e persone alla prevenzione.

Come si costruisce la prevenzione sul territorio, oltre ad attaccare le cause economiche dei roghi – comprese quelle legate al commercio globale?

Non si tratta solo o soprattutto di impedire l’accensione con leggi, telecamere, personale di sorveglianza. Qualche causa scatenante ci sarà sempre: i fulmini, i delinquenti o noncuranti, le scintille da binari e linee elettriche. Ma bisogna spegnere il fuoco sul nascere. Studiare il territorio e lavorare sulla vegetazione. In Italia può fare scuola la Regione Toscana, con il suo centro di addestramento antincendi boschivi La pineta di Tocchi, nel senese. Per la Legge quadro 353/2000 tutte le regioni devono avere un piano che individui le aree a rischio e le modalità di lotta. Con la prevenzione si impegnano le squadre, di lavoratori e volontari, in attività continuative sul territorio; al momento del bisogno saranno tutti anche pienamente addestrati.

Rigenerare gli ecosistemi forestali senza snaturarli dopo il passaggio del fuoco: si lascia fare alla natura o si interviene?

Non tutti gli incendi sono uguali. In Italia, in parte gli alberi continuano a vivere. Se invece occorre ripristinare le foreste, si deve tener presente che i legni morti nutrono e proteggono, aiutando il ritorno alla vita; in Svizzera li mantengono almeno in parte, nei progetti di riforestazione. Comunque attenzione: se piantare alberi diventa una scusa per continuare a bruciare combustibili fossili e magari anche disboscare, questo si chiama green washing.