Punti di vista. Kerstin Schomburg e Jakob Philipp Hackert: una ricerca fotografica, è il titolo della mostra allestita a Roma, presso la Casa di Goethe, a cura di Maria Gazzetti che nella presentazione scrive: «la fotografa tedesca Kerstin Schomburg, durante i mesi del suo soggiorno romano al Museo Casa di Goethe nell’estate del 2015, ha intrapreso una ricerca fotografica sulle tracce del famoso pittore di paesaggio Jakob Philipp Hackert, recandosi in molti luoghi raffigurati nei suoi dipinti. Qui Kerstin Schomburg ha cercato l’angolazione esatta della veduta ritratta nel rispettivo dipinto e ha fotografato da quel punto di osservazione ciò che si vede oggi».

Porto due esempi. Una «Veduta del Colosseo» (Vue prise de la Villa Casali Rome. Ph. Hackert pinx. Roma 1785) con la correlativa fotografia presa dal Largo della Sanità Militare, al Celio, dove si trovava Villa Casali.

Hackert delinea il profilo e le arcate dell’anfiteatro immerse nel verde. Il medesimo punto di vista offre a Schomburg un fitto sipario di palazzi, un cantiere della linea metropolitana in costruzione e neppure un esiguo spicchio del Colosseo.

E ancora una «Veduta di Villa Medici», firmata e datata (Vue dans la Ville Medicis à Rome. J. Philipp Hackert. f: 1770). In questo secondo caso la coincidenza è perfetta: la fontana e l’obelisco, la fabbrica di San Pietro, laggiù, oltre i pini, che son cresciuti, come le siepi di mortella del giardino all’italiana.

Raffronti che colpiscono.

Prendo spunto dalla ricerca di Schomburg per una divagazione sulle forme del paesaggio in fotografia e il modulo della veduta. Le opere dei vedutisti, tra Sei e Settecento, in Olanda e in Italia, hanno istituito i canoni moderni del paesaggio.

Con l’avvento e la diffusione della macchina fotografica, nel corso dell’Ottocento, quel canone, concepito come pittorico, è stato ribadito e fissato. E tale resta, nei suoi elementi di fondo, fino ai nostri giorni.

Sospendendo qui ogni riflessione sull’immagine in movimento e digitale (che mutano assai la categoria di paesaggio), è possibile evidenziare gli elementi di continuità e le varianti intervenute. Varianti che dipendono dal ricorrere a tecniche assai diverse, tali da determinare l’attitudine mentale, non solo operativa alla quale si dispongono, ciascuno a suo modo, il pittore e il fotografo. Si ponga mente ad un solo fattore: il tempo. Nella resa pittorica interviene come un dato costitutivo.

Dico del considerevole tempo di realizzazione necessario per portare a finitezza un’immagine nel caso che trascriva e riporti fedelmente i connotati di un sito. E dico del tempo concentrato, veloce che conferisce compiutezza di veritiera impressione ad un rapido schizzo.

Il divario tra un dipinto di Hackert ed un paesaggio pittoresco realizzato con rapida approssimazione secondo i dettami, poniamo, di William Gilpin, risiede nel diverso tempo di realizzazione.

In Hackert ogni foglia d’un faggio, d’un querciolo o d’un capelvenere è meticolosamente registrata. E questo esercizio di precisione al quale egli si attiene restituisce, in chi osserva l’opera, con la sensazione puntuale (vogliam dire ottica?) del fogliame, anche un moto di meraviglia.

Lo stupore che suscita ogni minuziosa riproduzione artificiosa della visione naturale della quale ciascuno fa giornaliera esperienza.

La pittura consegue un effetto di spiazzamento e stupisce l’osservatore.

Nella veduta mostra il panorama che ho a lungo contemplato, come se ancora io mi trovassi in quel luogo, al cospetto di quel momumento, immerso in quella luce. E la pittura mi si offre non come documento, ma come stato d’animo, attestazione memoriale, contatto con la mente dell’artista, dialogo.

L’immagine fotografica detiene un ineliminabile ‘fondo’ di documento, ovvero di registrazione conforme d’un dato di fatto. Fissa un luogo, un volto o un gesto tali quali ‘vedi’ al momento dello scatto.

Il tempo è ibernato nell’attimo e il fotografo si dispone a cogliere l’attimo che gli paia utile a immobilizzare un effetto: quel riverbero di luce, quel contrasto di valori cromatici, quella folata di vento tra le fronde ottenendo una nettezza incisa ‘per sempre’ tale da disporre l’osservatore non al dialogo, ma al soliloquio.