Nel Libro della pittura (1604) Karel van Mander racconta che Pieter Bruegel il Vecchio si vedeva tutti i giorni con l’amico e committente Hans Franckert, un mercante di Anversa. Con lui – riferisce van Mander – si recava spesso «fuori città, tra i contadini, per partecipare alle loro nozze e fiere, travestiti in abiti paesani, distribuendo doni e regali come tutti gli altri, fingendosi parenti dello sposo o della sposa». Come sempre in questi casi, ci chiediamo in che misura la notizia sia autentica o costruita a posteriori per spiegare quella parte della produzione del pittore fiammingo, alla fine degli anni sessanta del Cinquecento, che aveva già colpito i contemporanei: quadri celebri anche oggi, come il Banchetto di nozze o la Danza dei contadini.
Solo pochi anni prima, Pieter Bruegel aveva dimostrato questa stessa attenzione alla vita del popolo in un grande quadro sacro, l’Andata al Calvario (oggi a Vienna come i due dipinti citati poco fa): nella vallata dominata da un altissimo mulino, Gesù porta la croce sferzato dai soldati, ma il suo trascinarsi sofferente quasi non si nota nel tramestio di decine e decine di uomini e donne che camminano, portano o raccolgono cose; tutti – la gente comune, le guardie – vestiti come ci vestiva nelle Fiandre del secondo Cinquecento. È il quadro che Lech Majewski ha trasformato in una grandiosa scena animata, nel film I colori della Passione (The Mill & the Cross, 2011).
Nell’Europa del XVI secolo, Bruegel non è affatto il primo a interessarsi alle classi più umili nella loro quotidianità o all’interno delle tematiche sacre. Questa storia, che parte proprio dalle Fiandre, è ripercorsa ora da Angela Ghirardi in un libro appena edito da Tre Lune: Pittura e vita popolare Un sentiero tra Anversa e l’Italia nel secondo Cinquecento (pp. 243, euro 24,00). Il sottotitolo precisa l’ambito della ricerca, che ha il merito di non confinarsi in un confine strettamente iconografico: in gioco infatti non è tanto la figura del popolano, dei suoi atteggiamenti e delle sue abitudini, ma quell’interesse nei suoi confronti che è peculiare della seconda metà del secolo e va inquadrato – come fa l’autrice – da una parte nel dibattito religioso in corso, dall’altra nello sviluppo e nelle discussioni artistiche contemporanee. Detto altrimenti: c’è «vita popolare» anche nella precedente storia della pittura – mettiamo, i Mesi della duecentesca «aula gotica» a Roma – ma le occasioni e le forme di questa presenza sono altra cosa dal «sentiero» preso in esame da Ghirardi.
Sin dagli inizi degli anni Cinquanta, dunque, pittori come Pieter Aertsen o Joachim Beuckelaer ci fanno entrare in mercati sovrabbondanti di frutte e verdure, clienti, venditori; oppure ci introducono in cucine zeppe di tagli di carne bovina, canestri, stoviglie, fiori e, di nuovo, frutta e verdura. Sembra riversarsi tutta qui l’attenzione dei pittori, più per gli oggetti che per gli abitanti della casa o per gli acquirenti al mercato; ciò non toglie che là in fondo, ben lontano dal primo piano (riservato magari a un minestrone in pentola), si riconoscano la scena di Cristo in casa di Marta e Maria o una Fuga in Egitto: come visti attraverso un cannocchiale, fanno capolino episodi sacri, per non smarrire il legame con il versante spirituale e, forse, per suggerire un’interpretazione simbolica dello spiegamento, quasi tangibile, di cibo, manufatti e prodotti della natura.
Si va diffondendo, insomma, un inedito gusto per la semplicità delle cose (e delle persone che le vendono, le comprano, le cucinano). I critici del tempo non fecero fatica a trovare un fondamento nobile a questo nuovo corso «plebeo», ricordando che c’erano già passati gli antichi: Plinio il Vecchio cita un certo Pirèico, che allora chiamavano «pittore di cose sporche», anch’egli alle prese con «botteghe di barbieri e di calzolai, asini, vivande e simili».
Sta di fatto che questo «sentiero» del pane quotidiano, dei mestieri, della gente che si incontra in piazza, del confronto tra artificiale e naturale, si snoda anche in Italia e in modo speciale tra Veneto, Lombardia ed Emilia. Ghirardi rintraccia i percorsi che uniscono Fiandre e pianura padana in questa seconda metà del Cinquecento, interessi di mercanti, di viaggiatori, di collezionisti. Ecco così i venditori di pesci, polli, frutta del cremonese Vincenzo Campi, oppure i lavori dei campi nelle Stagioni di Jacopo Bassano. Intanto, sullo sfondo, il mondo dei letterati – Folengo, Ruzante, poi Tommaso Garzoni e Giulio Cesare Croce – non si lascia sfuggire questi stessi contesti stravaganti.
Roberto Longhi definì Jacopo Bassano «contadino per celia», introducendo di fatto una questione che attorno alla metà del Novecento interessava certamente meno che a noi: chi sono i destinatari di questa pittura a soggetto popolare? Una domanda ricorrente per generi letterari di lunghissima durata, come quello pastorale, e pure per le arti figurative, specie in età ellenistica: in quali case entravano le vecchie ubriache, i fanciulli che strozzano l’oca e gli stessi soggetti «sporchi» di Pireico? Plinio sapeva bene che le opere di quest’ultimo «furono vendute a maggior prezzo che le più grandi di molti altri», insomma per una committenza aristocratica o, almeno, ben fornita di denaro.
Le cose non dovettero andare molto diversamente per i pittori presi in esame da Angela Ghirardi: alcuni di questi quadri avranno pure decorato la sede di una corporazione o persino una bottega, ma in maggioranza dovettero essere acquistati da esigenti collezionisti, i «signori che si svagano ad osservare i lavori campestri» (Longhi); si svagano e misurano bene la distanza che li separa dalle pescivendole o dalle cuoche, dai loro abiti e dai loro modi. Basta prendere i Mangiaricotta di Vincenzo Campi o, ancora di più, i bottegai emiliani di Bartolomeo Passerotti per accorgersi che il loro è uno sguardo dall’alto, se non da una postazione aristocratica, almeno borghese (che poi è quella stessa raggiunta dai pittori). Uno sguardo che inquadra bene il villano nelle sue camiciole sdrucite, nelle sue urla sguaiate, nei suoi piedi sporchi. Quadri che, nel Cinquecento, venivano classificati come «buffonerie» o «allegrezze», come dire che l’umile e il comico sono la stessa cosa; dopo tutto, anche in un’altra storia di pittore vestito da contadino – Giotto in una novella di Boccaccio – l’elemento comico sorgeva proprio dai «mantellacci vecchi» e dai «cappelli tutti rosi dalla vecchiezza».
Ma non è così per tutti. In contesti e in momenti diversi, Bruegel da un lato e Annibale Carracci dall’altro prendono altri sentieri rispetto agli artisti loro contemporanei. C’è insomma naturalismo e naturalismo (c’è anzi da chiedersi se non sia il caso di recuperare, e rielaborare, la vecchia categoria di realismo). Si tratta infatti di scegliere – letteralmente – punti di vista nuovi: nel Banchetto nuziale il pittore fiammingo è più vicino alle cucine che in mezzo alla festa; nella Macelleria di Oxford Annibale è dietro al bancone, dalla parte insomma dei macellai. Come scrive Ghirardi, qui «non c’è niente da ridere, né ammiccamenti, né sguardi d’intesa». Dopo le scoperte di Zapperi sui Carracci sappiamo bene che questo coinvolgimento era dovuto anche a ragioni biografiche: era macellaio anche il padre di Ludovico, cugino di Annibale e anch’egli pittore a Bologna. Ma non è solo questo. Bruegel si fingeva paesano «come tutti gli altri», Annibale – riferisce Carlo Cesare Malvasia – frequentava «scarpinelli», «berrettari», «cantinieri»: frequentare il livello «basso» era la spia di un tentativo di riscrivere da capo il proprio rapporto con la realtà.