La mostra Le Signore dell’arte. Storie di donne tra ’500 e ’600, che avrebbe dovuto aprirsi a Palazzo Reale di Milano (ora sospesa in attesa della ripartenza dei musei), è l’ultima esposizione in ordine di tempo sul tema dell’arte al femminile. Con le sue trentaquattro opere, scelte da Annamaria Bava, Gioia Mori e Alain Tapiè, narra le biografie di alcune delle protagoniste dell’arte del Rinascimento e del Barocco offrendo però al pubblico più un’antologia di storie di «signore» anziché la vicenda critica di artiste che hanno lavorato al fianco dei colleghi uomini, battendosi per un’equa retribuzione del proprio talento (Properzia de’ Rossi negli anni Venti del Cinquecento, Artemisia Gentileschi nella prima metà del Seicento) e imponendo la loro personalità e opera già presso i contemporanei.
È questa quindi l’occasione per riproporre un focus sugli studi storici di genere che hanno cercato di proporre la lettura e la comprensione di un fenomeno complesso e articolato, attraverso il recente fiorire di attività espositive.

NEL FEBBRAIO DEL 1971 usciva Why Have There Been No Great Women Artists?, saggio provocatorio e pionieristico, scritto da Linda Nochlin per rispondere alla domanda ironica di un gallerista newyorkese. Si dischiusero così le porte alla nascita della storia dell’arte di genere, un reale cambiamento di mentalità attraverso un approccio educativo e comunicativo basato su opportunità davvero «pari» per le donne, e non solo artiste, di essere conosciute e ri-conosciute.
Da allora questo campo di indagine è stato prevalentemente americano, associato al movimento femminista. Il risultato fu la memorabile Women Artists 1550-1950, la prima mostra sulle artiste, curata dalla stessa Linda Nochlin e Ann Sutherland Harris e inaugurata nel dicembre del 1976 al Los Angeles County Museum of Art.

QUELLA RASSEGNA spazzava via un pregiudizio fondamentale, ovvero che non fossero esistite, o fossero state molto poche, le donne nella storia dell’arte. Gli studi successivi hanno fatto fuori un altro luogo comune, quello cioè che non fossero «adatte» alla professione.
Decenni di ricerche, alle quali l’Italia ha dato un contribuito con la Scuola di Bologna, diretta da Vera Fortunati, studiosa della prima ora di Lavinia Fontana a cui dedicò nel 1994 una mostra fondamentale per l’innovativo impianto metodologico.
La disciplina è sempre stata appannaggio elitario di studiose, che hanno cercato di affrancarsi dall’impronta critica del femminismo degli anni ’70 e, con l’apporto di argomenti storico-economici, offerto una lettura più corretta possibile di un fenomeno complesso.

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COSÌ NEGLI ULTIMI ANNI l’attenzione verso questo tema è cresciuta anche presso le istituzioni museali, che hanno provveduto a compensare l’assenza di artiste nelle collezioni con un salto in avanti nelle politiche di acquisizione. Questo è quanto accaduto alla National Gallery di Londra che nel 2018 assicurava al suo patrimonio l’Autoritratto come santa Caterina d’Alessandria (c. 1615-17), opera giovanile di Artemisia Gentileschi (1593 -1654 c.).
L’ingresso del dipinto in una collezione di 2800 pezzi – di cui solo ventuno opere di artiste – ha incoraggiato l’organizzazione della prima mostra monografica in Gran Bretagna di una delle artiste più significativa del XVII secolo. In Artemisia (ottobre ’20 – febbraio ‘21) la curatrice, Letizia Treves, ha messo insieme trenta dipinti, tutti rigorosamente accettati dalla critica, e ha raccontato la vita e le opere della Pittora in una chiave che prende le distanze dagli stereotipi critici che troppo spesso hanno accompagnato gli studi della pittrice romana. Per troppo, lungo tempo si è parlato di Artemisia per le sue vicende personali, associandone la produzione e falsando, se non addirittura diminuendo, il giudizio sulle sue opere. Il sottotitolo della mostra – «farò vedere a V.S. Illustrissima quello che sa fare una donna» (frase che Artemisia scrisse a don Antonio Ruffo nell’agosto del 1649) – rafforza e dimostra la consapevolezza di «una donna indipendente, una meraviglia, uno stupor mundi, come valevole di fama immortale e di celebrazioni da parte della storia».

ARTEMISIA LAVORAVA dal vivo o dal naturale, seguendo una pratica diffusa da Caravaggio e condivisa con un’altra grande artista del XVII secolo, Giovanna Garzoni, abile nel realizzare dal vero nature morte, illustrazioni botaniche e miniature. A quest’ultima, Palazzo Pitti ha dedicato la mostra La grandezza dell’Universo nell’arte di Giovanna Garzoni (maggio-giugno 2020) curata da Sheila Barker, storica dell’arte del Medici Archive Project. Un’esposizione che ha avuto il pregio di aver messo al centro dell’investigazione il ruolo cosmopolita dell’artista, utilizzando le vicende biografiche per interpretarne la produzione.
Scostandosi dal modello di vita femminile del suo tempo, Garzoni viaggiò in Italia, forse in Francia, ed ebbe accesso alle più importanti collezioni di curiosità dell’epoca. La sua cultura si formò così in anni di trasferte che la misero in relazione con più ampi movimenti di persone, di consumatori di beni e di artefatti culturali, divenendo la pioniera della globalizzazione artistica e sociale ante litteram.
L’imitazione delle decorazioni Ming e l’invenzione di nuovi pezzi perfettamente coerenti per stile e iconografia con gli originali, come se si fosse realmente recata in Cina a studiare quell’arte, furono solo alcune delle scelte estetiche che Garzoni utilizzò per promuovere se stessa e la sua arte. La presenza nelle collezioni medicee di vasi di porcellana cinese rimane la testimonianza materiale più eloquente della sua influenza nella diffusione di un gusto orientale a corte. Un’autorevolezza che si evince anche dai documenti fiorentini che indicano Giovanna Garzoni proveniente ora dalla Francia – la donna francese – ora da L’Aquila o da Lucca, ora ancora da Genova o dalle Fiandre, mai da Ascoli, città natale, o Roma, città nella quale l’artista si stabilì e morì, lasciando i suoi cospicui beni all’Accademia di San Luca che l’aveva accolta e acclamata come artista insigne.
La sua identità sopranazionale, difficilmente raggiunta dalle donne in quei tempi, ben si integrava con la personalità volitiva e forte della granduchessa Vittoria della Rovere, di cui in mostra si era ricostruito, sulla base di un inventario inedito, la sua Wunderkammer. Adelina Modesti (University of Melbourne) ne ha restituito recentemente il profilo nel suo Women’s Patronage and Gendered Cultural Networks in Early Modern Europe. Vittoria della Rovere, Grand Duchess of Tuscany (Routledge, 2019).

LA STUDIOSA ha dimostrato che Vittoria della Rovere era molto attiva nel sistema della corte e fu una appassionata sostenitrice delle arti e dell’architettura, tanto da usare una consistente parte del suo patrimonio personale per commissionare e collezionare opere d’arte ai più influenti e famosi artisti e scrittori del suo tempo, per ristrutturare e decorare i suoi appartamenti a Palazzo Pitti e nelle ville medicee, e per costruire chiese. In particolare, sostenne l’operato delle donne, tra cui Elisabetta Sirani, Giovanna Garzoni e Giovanna Fratellini. Ebbe una sua artista di corte, Camilla Guerrieri, e fondò un salon femminile nella villa di Poggio a Caiano, dove si riunivano e esibivano cantanti, attrici e poeti. Il lavoro, monumentale, ricco di testimonianze d’archivio e di una corretta e ragionata bibliografia, ha confutato il luogo comune che voleva il ramo femminile di casa Medici relegato in occupazioni frivole e senza interesse per la cultura o la politica.
A tale of two women painters: Sofonisba Anguissola and Lavinia Fontana (Madrid, ottobre 2019 – febbraio ‘20) è ancora un’altra fondamentale rassegna organizzata di recente per celebrare i duecento anni del Prado, con 65 opere per la prima volta esposte insieme di due tra le più apprezzate artiste della seconda metà del XVI secolo. Le curatrici, Leticia Ruiz Gomez, Almudena Perez de Tudela e Michael Cole, hanno voluto dimostrare la fama e il riconoscimento che queste due pittrici raggiunsero nei loro tempi, oscurati invero dalla letteratura e dalla critica borghese dell’800, smantellando di fatto lo stereotipo della donna incapace di ottenere successi professionali solo perché donna.
Il fascino indiscusso di questi studi è quindi all’origine dell’organizzazione di mostre che hanno l’inevitabile dovere di educare il pubblico di non esperti, anche attraverso un lessico appropriato che dovrebbe allinearsi alle ricerche più aggiornate. Dal momento che il linguaggio descrive la realtà, andrebbero consegnate al folclore, come ricorda Francesca Maria Dovetto, linguista alla Federico II di Napoli, alcune «rappresentazioni della figura femminile che si sono sedimentate nel nostro lessico», come zitella o signora. Se i limiti del nostro linguaggio sono quelli del nostro mondo – come sosteneva Wittgenstein – allora la scelta delle parole rimane elemento identificativo di un pensiero. È ancora lungo il cammino per una storia dell’arte senza genere.

 

(Professor of Art History, University of Arkansas)