Camille Pissarro a Pontoise, 1874, Pontoise, Archives Musée Camille-Pissarro

 

Chi si reca a Basilea per la mostra Camille Pissarro Das Atelier der Moderne (a cura di Josef Helfenstein e Christophe Duvivier, Kunstmuseum, fino al 23 gennaio) non rende solo omaggio al grande artista, ma anche all’uomo di indiscussa moralità. La mostra non mancherà di soddisfarlo in pieno. In che cosa è particolarmente riuscita? Nel fatto di scandire ogni tappa del suo percorso in maniera nitida mettendone a fuoco gli snodi principali. Senza sovraccarico di opere, ogni passaggio della parabola artistica di Pissarro viene messo in luce con chiarezza, avvalendosi di alcuni confronti eccellenti con le opere dei compagni di viaggio in periodi vari del suo lavoro artistico. In questo senso la mostra propone a getto continuo spunti interessanti, e se proprio dovessimo indicare un punto di cedimento, di mancata intensità, guarderemmo all’incontro, via natura morta, con Cézanne, dove il notevole salto temporale, tutto a vantaggio del Provenzale, non giova di certo al fecondo dialogo che si intrecciò tra i due artisti.
Perno della rassegna sono appunto i confronti con altri pittori: agli esordi, con gli esempi dei maestri Daubigny e Corot; nella sala successiva alla scoperta della luce mutevole in natura con l’impressionismo di Monet, Renoir e Sisley; e poi in successione, oltre a Cézanne, Gauguin, Degas e Cassatt (per la parte grafica), Seurat, Signac e tutta la schiera di pittori del neoimpressionismo. I paralleli con i suoi contemporanei non potevano mancare, perché la pittura di Pissarro si dirama in molte direzioni, sempre vigile a ciò che di nuovo si staglia all’orizzonte. Un’attenzione per il nuovo in cui la ricerca estetica si salda con il proprio credo politico progressista, utopista; da qui l’approdo alle teorie scientifiche del puntinismo, non però prese alla lettera. Nessuna ombra di invidia, competizione o egocentrismo, ma solo l’impegno e la finalità di un’arte consacrata al bene politico e sociale. Questo è l’elemento fondamentale su cui poggia la grandezza di Pissarro.
Eppure, malgrado la distanza umana che alla fine li separò, ai nostri occhi il confronto più avvincente, tutto basato sul rapporto ombra-luce e la sua interiorizzazione, anticamera dell’esperienza simbolista, avviene con Gauguin, proprio colui – un tempo amico – al quale il solitamente magnanimo Pissarro non perdonò alcune scelte di fondo e rivolse critiche aspre. Finì per considerarlo un furbo, un ingannatore: «Gauguin non è un veggente, è un furbo che ha percepito il retrocedere della borghesia davanti alle grandi idee di solidarietà che si sviluppano nel popolo; idee inconsapevoli, ma feconde e le sole legittime!» (lettera al figlio Lucien del 1891).
Non è mai sfuggito a chi ha un poco approfondito la personalità dell’artista un dato ben visibile e inspiegabile nella sua fortuna postuma, e cioè una certa assenza all’interno di un complessivo discorso critico dell’effettiva incidenza che ebbero fede e impegno politico sulla sua arte. Per cui, questa mostra già raggiunge un buon risultato dando il dovuto risalto alla questione. Non si può considerare il Pissarro artista senza tener conto dell’uomo impegnato nel progresso sociale e politico; uno sforzo, o meglio una lotta nella quale l’arte era chiamata a dare il proprio contributo, a far tesoro essa stessa del progresso scientifico trasformandolo in teoria estetica.
Ponendo quale priorità questa saldatura tra artista e uomo politico, il percorso espositivo è stato quindi esattamente diviso in due parti dalla serie di disegni intitolata Turpitudes sociales (1889), quadernetto di ventidue disegni collocato lì come uno stretto passaggio obbligato. Disegni che Pissarro dedicò alla sua nipotina, una sorta di promemoria con tanto di commento per la vita futura, uno strumento di educazione e presa di coscienza. È una condanna senza sconti del mondo industrializzato, identificato nell’appena edificata Tour Eiffel e nella selva di ciminiere che la circondano; un grido di orrore contro lo sconquasso morale e sociale di cui la vita metropolitana è la causa; è un’accusa feroce lanciata contro il dio denaro, contro lo sfruttamento e l’annichilimento del popolo. Dall’alto lo sguardo di un uomo paziente con la falce del giustiziere, che attende il suo tempo, fiducioso, e vede il sole sorgere oltre la sagoma mostruosa della grande capitale moderna. Ma le Turpitudes sono un unicum, dove per una volta il volto affabile di Pissarro si trasforma in sguardo terribile. L’artista si legò agli ideali anarchici, in quegli anni molto diffusi, sostenne e collaborò con riviste libertarie e di satira politica come «Les Temps Nouveaux» o «La Révolte», e riparò all’estero, dopo l’assassinio del primo ministro per mano dell’anarchico Caserio, per timore di essere perseguitato dalle autorità.
La seconda parte del percorso espositivo è incentrata in gran parte sull’artista alla ricerca di quell’armonia sociale vagheggiata in una lunga serie di idilliache immagini di un mondo rurale dove uomini e donne si rendono operosi, all’unisono, autosufficienti grazie al lavoro nei campi, alla raccolta della frutta. Opere in alcuni casi di forma circolare, elaborate per diventare ventagli, ma con una forza irradiante da far credere che simboleggiassero anche un sole nascente ( L’âge d’or n’est pas dans le passé, il est dans l’avenir»). Un idillio reso per mezzo di una luce intensa, chiarissima, nella quale tutto si fonde.
Su questa necessità di rappresentazione di un ideale sociale si basa l’incontro con il neoimpressionismo e la sua teoria di unità nell’estrema frammentarietà; la particella infinitesimale che diventa parte di un tutto, come i fiumi che da ogni parte del mondo convergono verso l’oceano. Sappiamo dei soggetti prediletti dai neoimpressionisti, quasi tutti attratti dalle idee anarchiche: il lavoro nei campi, i raccolti, i covoni, i paesaggi di mare, luminosissimi, che ispirano la piena libertà, ed è quindi facile grazie alle comuni tematiche tracciare confronti tra Pissarro e i suoi amici compagni. Resta tuttavia particolarmente interessante quello con l’enigmatica figura di Seurat: se il primo vede il mondo attorno a sé sciogliersi in un’atmosfera umanamente calda, l’altro lo vede da distante, le forme come raggelate.
Tanta è la dolcezza infusa nelle sue immagini da Pissarro che si rischia senza accorgersene di essere condotti a una soglia oltre la quale si finisce nel dolciastro. Una linea che si avvista, ma che Pissarro non supera, e si prendano ad esempio proprio quelle opere al limite come le immagini di bagnanti (metà anni novanta).
In un disegno l’amico Luce immortalò Pissarro e un paio di suoi figli mentre se la godono sdraiati sull’erba in mezzo alla campagna. La famiglia fu un caposaldo nella vita dell’artista. Ebbe molti figli e tutti loro si dedicarono all’arte sulle orme del padre. Scrisse al figlio Georges: «Che penseresti di un mobile eseguito da tutti voi? Pensa, sarebbe firmato “i fratelli Pissarro”». Rimangono a testimonianza dei profondi legami e affetti che unirono la famiglia le lettere che il padre spedì al figlio Lucien lungo vent’anni alla fine dell’Ottocento.
Al nucleo familiare è dedicata la penultima sala; l’ultima invece al pittore ormai anziano e finalmente un po’ celebre, che prendeva in affitto camere con vista sui porti cittadini: un ritorno, abbandonata la ricerca puntinista, alle passioni impressioniste, sia nei soggetti che nella tecnica. Ultima tappa della mostra, troppo documentata, in cui appare evidente una caduta di tensione.