Forse sull’Urss, e sui poco più di settant’anni di esistenza del regime comunista, passati ormai quasi trent’anni dalla dissoluzione si incomincia a capire un po’ di più. Non tutto, ma almeno qualcosa. E finalmente si esce dall’incubo storiografico del segreto e della propaganda (o viceversa dell’odio preventivo) che ha dominato finora.
Qualcosa infatti nel frattempo è venuto fuori dagli archivi. Finalmente ora si comincia a comprendere in maniera più rigorosa e attendibile come la dirigenza sovietica fu complicata e piena di conflitti, ma anche di strategie e di progetti. Si veda in proposito il buon libro di Oleg V. Chlevnjuk, Stalin. Biografia di un dittatore, pubblicato a Mosca nel 2015 e tradotto da Mondadori nel 2016: si segnala in particolare il capitolo su Stalin comandante in capo durante la guerra, con i suoi ordini strutturali sul controllo delle forze armate e i suoi errori strategici (pp. 258-265).
Per la cultura sovietica, in Italia si dispone ora invece di Quando c’era l’Urss 70 anni di storia culturale sovietica di Gian Piero Piretto (Raffaello Cortina, pp. 621, e 39,00). È un libro vasto, con tantissime foto, dove viene verificata, controllata e descritta la storia di quel mondo nelle sue varie parti: dalla letteratura popolare a quella d’avanguardia, la fotografia, il cinema, la radio, la pittura, la scultura, i progetti architettonici e quelli degli spazi (si vedano le pagine 149-152, interessanti sui nuovissimi «parchi della cultura e del riposo»). E poi, ancora, sulle formulazioni teoriche: per esempio su Michail Bachtin (1895-1975), celebre studioso russo del carnevale, qui giustamente collegato al potere politico e alle conseguenze che ne ebbe. Per non parlare delle canzoni e della musica, della pubblicità, della cucina e della gastronomia, dei vestiti, dei processi alla libertà di espressione, dell’aeronautica.
Piretto, che ha insegnato Cultura russa all’Università di Milano, aveva pubblicato un libro simile già nel 2001 per Einaudi, Il radioso avvenire. Ma in Quando c’era l’Urss ha raccolto e discusso anche i materiali, le ricerche e le scoperte sviluppati negli ultimi quindici anni. È un’interessante raccolta di osservazioni e ricostruzioni provenienti da diverse parti (persino troppe) differenti tra loro: sono testi russi, saggi italiani ed europei di vario tipo (tecnici, psicologici, linguistici), giornali e riviste russe, soprattutto quando dispongono di brillanti illustrazioni (molto usato il celebre «Krokodil», settimanale satirico nato nel 1922), dettagli di film e di lavori teatrali.
Ogni tanto gli incroci tra tanti elementi della cultura e del costume producono delle conseguenze, come la verifica dei cambiamenti che avvennero. Si veda ad esempio la lunga descrizione dell’abbigliamento e dell’atteggiamento fisico di Stalin tra la guerra contro i tedeschi, il dopoguerra e la Guerra fredda (pp. 290-297): ogni volta forniva un’immagine diversa di sé, prima con la sua forma tradizionale e di basso profilo, come da uomo comune, «compagno» tradizionale; poi, durante la guerra, assunse quella dell’uomo che cerca sicurezze, fino all’eroe e all’uomo di guerra e «giusto».
Ma anche più interessante è la descrizione che viene dai cenni qua e là fatti nel libro ai cambiamenti del significato di una di quelle parole russe (sono parecchie) difficilissime da tradurre: byt, «essere», ma che vuol dire pure relazioni politiche, sentimentali, aspirazioni quotidiane e così via. Il byt diventa per esempio il modo di vivere che prende avvio grazie alla nuova refezione che ha vita negli anni venti (p. 86), ma fu anche una parola usata da Pasternak per spiegare il non chiarissimo suicidio di Majakovskij nel 1930: «La barca dell’amore si è spezzata contro il byt» (p. 131). Che era un byt diverso dal precedente: bolscevico, rivoluzionario, socialista, staliniano e forse anche privatissimo. Così si era ucciso Majakovskij.
È una continua modifica ed evoluzione, che pian piano arriva alle spalle di una politica comunista che conquista tutto. Scompaiono i lubki, le stampe e i racconti popolari che hanno attraversato la cultura russa fino alla Rivoluzione (accadde anche in Francia) e compare invece il lubok leniniano, la foto del leader ormai morto e diffusa in milioni di copie come un santino. Poi scompare anche quella, come tutti i lubki, e appare una vera cultura di partito, dove incominciò ad avere un ruolo e a pesare il leader: non solo Stalin, ma perfino i leader locali. E fu questo un altro momento di revisione del byt, del rapporto tra arte e vita. Con il «piano quinquennale», tutta la produzione venne rifatta, quella industriale, del consumo, agricola; e arrivarono gli udarniki, i superproduttori che dovevano convincere tutti su quanto si dovesse lavorare; e Stachanov, che aveva estratto carbone in maniera da record (in un modo tutto progettato a tavolino). Insieme, nel 1935, Stalin spiegava come era diventata davvero la vita in Unione Sovietica: «vivere è diventato più bello, compagni, vivere è diventato più allegro» (p. 180). Ancora una volta tornava il byt, ma raddrizzato verso l’allegria.
Sarebbe però arrivato il periodo più terribile, dove tutto sarebbe stato rifatto e sconvolto: quello del terrore fino al 1937-’38, culminato in sostanza con l’eliminazione dello stesso esecutore del terrore, Nikolaj Ezov, capo della polizia politica (si veda in proposito le buone pagine di Chlevnjuk, 196-202). E fu una fase pesantissima anche per la cultura, perché vennero perseguitati e cancellati alcuni degli intellettuali, i «formalisti» nella musica, nella pittura, nella letteratura (Piretto, pp. 257-261).
Poi, ancora, cambiamenti dopo la morte di Stalin. Ma fu di nuovo un’altra fase, con un nuovo byt, tutto sommato meno ricca e rilevante di quella precedente. Dopo Stalin la Russia avrebbe cambiato ancora esistenza. Ma ora il problema era diverso ancora: principalmente gestire un dissenso sempre più difficile e ostile, all’interno e fuori.