Dopo il cedimento del tetto della Chiesa di San Giuseppe dei Falegnami nel Foro Romano, si è diffusa nel pomeriggio di ieri la notizia di un altro crollo che – a poche centinaia di metri – ha toccato la Rocca Tarpea, luogo ammantato di reminiscenze dalle tinte fosche. Secondo una prima ricostruzione, alcuni pezzi di muro si sono staccati dal Monte Tarpeo, sorprendendo due agenti della polizia di Roma Capitale che si trovavano all’interno del gabbiotto metallico posto proprio al di sotto della parete, nella via che ricorda l’omonimo sito.

LA SOPRINTENDENZA capitolina ai Beni culturali, in seguito a un sopralluogo, ha fatto sapere che ad essere caduti dalla Rupe Tarpea sono «frammenti edilizi moderni, ovvero dei ‘tamponi’ realizzati in epoca moderna sulla rupe, con dei pezzettini di tufo». Nel comunicato diffuso dall’Ansa si afferma inoltre che il luogo sarebbe già stato messo in sicurezza e non ci sarebbero ulteriori rischi di crollo. Malgrado le rassicurazioni, resta un senso di smarrimento per la fragilità di un patrimonio archeologico e della memoria delle origini di Roma che vede materializzarsi paure covate ormai da anni. Se fino a qualche tempo fa, infatti, i crolli riguardavano la «periferica» Pompei e solo marginalmente il caput mundi (si pensi al soffitto della Domus Aurea che nel marzo 2010 franò in una delle gallerie traianee), a mostrarsi indifeso è ora il cuore più antico dell’Urbs.

NARRA LA LEGGENDA che quando i Sabini di Tito Tazio, re di Cures, raggiunsero il Campidoglio entrando dalle porte, queste gli furono aperte da Tarpea (Tarpeia in latino), figlia di Spurio Tarpeo, custode dell’arce capitolina e segreto alleato dei Sabini. L’ardita fanciulla aveva chiesto in cambio del «favore» i braccialetti (armille) e gli anelli d’oro che i nemici portavano al braccio sinistro. I Sabini invece l’uccisero con gli scudi, che pure tenevano con la sinistra, gettandola dalla rupe.
Da qui, dal cosiddetto Saxum Tarpeium, precipitarono poi – sino al principio dell’età imperiale – i colpevoli dei delitti contro lo stato, come i parenti e gli amici dei Gracchi, di cui riferisce lo storico romano Valerio Massimo. Sappiamo inoltre, dalle meticolose ricerche di Filippo Coarelli, che alla Rocca Tarpea era affisso il Robur, una sorta di macchina lignea con uncini di ferro destinata a sostenere il condannato al momento dell’esecuzione. Lo stesso studioso, specialista di antichità greche e romane, afferma che il Saxum Tarpeium era inglobato in un sistema funzionale organico del quale facevano parte anche il Carcer e il Tullianum, ovvero i due monumenti arcaici che sono stati sovrastati dalla Chiesa di San Pietro in Carcere (successivamente trasformata, a partire dalla fine del XVI secolo, in San Giuseppe dei Falegnami).

È DUNQUE LO SPAZIO compreso fra l’Arx e il lato settentrionale del Comizio dove si concentravano la sede del pretore, dei triumviri capitales e dei tribuni della plebe a perdere pezzi, con quella sorta di cinismo che solo la Storia è capace di manifestare verso il potere (non solo antico).

MENTRE SI ATTENDONO accertamenti sulle cause del crollo alle pendici del Campidoglio – la Soprintendenza capitolina parla di infiltrazioni d’acqua – non si può che rimarcare, anche in occasione di questo infausto evento per fortuna privo di vittime del presente, come la tecnica del «rattoppo», applicata alle infrastrutture moderne o alle rovine antiche, si riveli sempre una soluzione rischiosa, che mette a repentaglio la sopravvivenza di monumenti identitari di un paese così come l’incolumità di cittadini e turisti, che dovrebbero poter usufruire del patrimonio in condizioni di sicurezza.

E SPIACE anche dover sottolineare come gli enti preposti alla tutela si affrettino a trovare giustificazioni e placare gli allarmismi, mentre la società civile assiste attonita allo sgretolamento dell’eredità del passato e del dovere – peraltro sancito dalla Costituzione – di conservarlo per le generazioni future.