Quando penso che il manifesto compie 50 anni mi vengono i brividi perché sono stato un disincantato lettore dei suoi primi vagiti. Nella sinistra extra-parlamentare, di cui facevo parte, lo ritenevamo un po’ troppo di élite, troppo difficile da leggere anche per i caratteri piccoli e fitti fitti con cui era confezionato.

Dagli anni ’80 ho cominciato ad apprezzarne la ricchezza dei contributi intellettuali, l’apertura sul mondo, sulle rivoluzioni, i movimenti, le dittature (dal Centro-America alla Palestina, dalla Algeria alla Cina, da Cuba al Cile).

E poi, come tanti per fortuna, ho stabilito un mio personale legame affettivo con questo quotidiano, che è molto di più di un giornale. È l’unico in Europa che non ha un padrone tra i quotidiani nazionali. Nessun altro quotidiano nazionale può vantare un esercito di «intellettuali» che danno contributi gratuiti, un esercito di sostenitori che hanno messo le mani in tasca per sostenerlo economicamente durante le tante crisi. E nessun quotidiano che io sappia ha dei giornalisti di alto livello che hanno fatto sacrifici economici enormi pur di salvare questo sogno di libertà.

Il manifesto ha resistito a tutte le ricorrenti crisi della Sinistra, storica e non, a tutte le divisioni, sempre avendo come valore fondamentale quello di stare dentro la storia materiale degli esseri umani, dentro le contraddizioni che il capitalismo ha creato e crea, dentro i nuovi movimenti sociali e culturali alternativi.

Non ha inseguito le mode del momento, ma quando ha individuato un punto alto di contraddizione del sistema ha continuato a denunciarlo, a seguirlo, a coglierne i punti di frizione e di debolezza.

Così partendo dal conflitto tra le classi sociali è approdato a quello tra capitale e natura, senza dimenticare il legame tra le due lotte/resistenze/contraddizioni generate dal capitale. Non è un caso, infatti, che sul manifesto è apparsa la prima intervista in Italia fatta a James ‘O Connor, l’economista marxista che per primo ha posto teoricamente le basi per una lucida analisi del capitalismo contemporaneo, che mentre affama una parte della popolazione, distrugge l’ecosistema, e ci porta verso quello che Alex Langer chiamò il «doppio debito»: quello finanziario e quello ecologico.

E, su questa scia, in questi anni il manifesto è riuscito a produrre settimanalmente quella perla che è l’Extraterrestre, mentre la grande stampa nazionale ci riempie di inserti finto-ecologici e totalmente subalterni alla logica della Religione della crescita a cui tutto è funzionalizzato (compreso l’attuale e tanto sbandierato piano di «transizione ecologica»).

Nell’augurare al manifesto almeno altri 50 anni, vorrei che in questo decennio (visto che tra 50 anni non ci saremo alcuni di noi), affrontassimo seriamente la questione del «comunismo» a cui questo giornale ancora si richiama.

Circa dieci anni fa scrissi che, a mio modesto avviso, il manifesto era diventato un giornale «comunardo», libertario, contro tutte le forme di oppressione, comprese quelle dei regimi che sono retti da partiti comunisti. E ricordiamolo che proprio sulla critica all’Urss è nato questo giornale! Ebbene, mi rispose Valentino Parlato, con l’eleganza e la gentilezza che lo contrastingueva, che era vero quello che sostenevo, ma che il «marchio comunista» rappresentava una sorta di nome e cognome, la nostra carta d’identità, a cui ognuno di noi è legato.

Lo capisco, ma a 150 anni dalla Comune di Parigi mi permetto di ribadire umilmente che questo è un giornale «comunardo», e questo, forse, tra parentesi, potrebbe comparire anche nel titolo.