Tutto fermo. E non è per colpa del Covid e dei suoi effetti collaterali sul mercato dell’acciaio, visto che nella migliore delle ipotesi il nuovo forno elettrico – e ne erano stati promessi due – sarà pronto fra due, tre anni. Vaso di coccio tra vasi di ferro come Taranto, Terni e la filiera del nord, Piombino continua ad agonizzare insieme alle sue Acciaierie. Perché anni e anni di cassa integrazione non impoveriscono solo le migliaia di famiglie degli operai ma l’intero tessuto cittadino e della Val di Cornia. Ben lo sanno le segreterie nazionali di Fiom Fim e Uilm, che in vista della scadenza del 30 novembre per l’ingresso di Invitalia – come per l’Ilva – hanno chiesto un incontro urgente al Mise “per riprendere e approfondire insieme a Jsw un confronto sulla definizione del piano industriale, e sul necessario indirizzo strategico che il governo deve assicurare”. Una lettera inviata al ministro Patuanelli e alla sottosegretaria Morani, che ha in mano il dossier Piombino.
Mentre i treni di laminazione, già di per sé logori, sono di nuovo fermi, e tutto il resto della enorme Cittadella dell’acciaio è diventato un malinconico esempio di archeologia industriale – da bonificare – la pur ricchissima multinazionale indiana a cui lo Stato italiano ha affidato le Acciaierie non si muove. “Per caso a Jindal gli mancano i soldi da investire su Piombino?”, osserva Massimo Braccini con un interrogativo retorico da manuale. Così i sindacati metalmeccanici chiedono al governo che le risorse economiche previste, e cioè l’ingresso di Invitalia nel capitale sociale inizialmente con 32 milioni, indispensabili per gli interventi “ormai non più rinviabili per il rifacimento e la messa in sicurezza degli impianti attualmente attivi”, vincolino Jindal South West “alla realizzazione del forno elettrico, anticipando i tempi attualmente previsti”.
“Jindal cerca di strappare il più possibile – fotografa Braccini, segretario generale toscano della Fiom – e dal governo non arrivano notizie”. Mentre quelle che arrivano dalla fabbrica sono disperanti: il benvoluto direttore del personale Grilli se ne va (dopo 24 anni), e lascia anche il direttore dello stabilimento Simoni. Per questo, nella lettera al Mise, Fiom Fim e Uilm puntualizzano che l’ammodernamento delle linee di laminazione “è solo il primo di una serie di investimenti che devono essere parte di un Piano industriale che dia certezze e garanzie sugli interventi e sui tempi”. Un Piano che “presenta ancora elementi di incertezza”.
Già, il Piano industriale. Nei progetti di Jindal e di Marco Carrai, da quest’anno vicepresidente di Jsw, intende porre le basi di “un complesso industriale multicentrico”. Non solo acciaio quindi, su cui Carrai dice di voler impiegare non più di 800 addetti sui quasi 2.000 dipendenti diretti, ma anche attività “nel campo dell’energia, della logistica e della cantieristica”. Traduzione: un accordo con i lussemburghesi del fondo Creon, pronti a parlare di “un cluster energetico che potrebbe consistere in progetti con oggetto idrogeno, energia rinnovabile, stoccaggio e rigassificazione del Gnl”. Un secondo accordo con i bergamaschi Montello, specializzati nel settore, per realizzare una sorta di “polo per il riciclo”. Infine una trattativa aperta con Fincantieri per costruire piccoli traghetti, mini navi da dragaggio, e casseformi in acciaio per le dighe marine.
Tre direttrici d’azione, di cui solo l’ultima è giudicata possibile da una città che resta aggrappata all’acciaio che l’aveva resa ricca, e che invece non vuole diventare un polo nazionale dei rifiuti. Tanto da aver cacciato Pd e alleati dal Palazzo Comunale, sull’onda dell’indignazione per il previsto raddoppio della discarica Rimateria, in precedenza privatizzata. Una Piombino che, al di là degli schieramenti politici, ora non si fida di Jindal, al pari dei metalmeccanici. E nemmeno di un governo ritenuto succube della multinazionale di turno.