Che senso ha una donna adulta abbracciata a un albero? L’attrice stringe a sé uno spoglio alberello bonsai, seduta su una sorta di muretto che chiude sul fondo la piccola scena del teatro delle Moline. I piedi che convergendo si toccano in punta le danno un’aria un po’ infantile. L’attrice è Matilde Vigna, poco più di trent’anni e già indimenticabile regina cattiva nell’epica Santa estasi di Antonio Latella ma anche rockettara protagonista dell’Aminta dello stesso regista campano o alla Biennale di Venezia negli Spettri di Leonardo Lidi o il Platonov di Liv Ferracchiati. Questa volta ha deciso di far tutto da sé, suo è il testo di Una riga nera al piano di sopra, monologo per alluvioni al contrario dice il sottotitolo. Parla delle sue origini, della sua terra. Il Polesine, quella regione fisica del basso Veneto compresa fra i fiumi Adige e Po che da lì arrivano al mare. Terra di acqua, terra paludosa dice l’etimologia del nome. Pioggia e nebbia, la nebbia che se non ci sei mai vissuto dentro non hai idea di cosa sia, quando da ragazzi guardando fuori dalla finestra non si vedevano le case dall’altro lato della strada.

ANNO 1951. Il primo festival di Sanremo, il primo gran premio vinto dalla Ferrari. In autunno piove, quaranta giorni di pioggia, tre volte di più degli altri anni. I fiumi si gonfiano, il Po in piena rompe gli argini. È l’alluvione del Polesine. La descrizione metereologica un poco alla volta lascia il posto a un’altra narrazione, più soggettiva per così dire. La narrazione di quelli che sono saliti sull’argine sotto la pioggia a guardare la piena. In silenzio. E poi a portare terra su quell’argine, sacchi riempiti di sabbia. E anche lei, l’attrice, è salita sul muretto diventato l’argine da cui guardare il livello dell’acqua che sale. Acqua che travolge tutto. Acqua e tera, canta Giovanna Marini.
Ma come dar conto di questa memoria? Come colmare questa distanza, al di là delle voci di coloro che nel loro dialetto, anch’esso liquido e terroso, assistono impotenti al compiersi della tragedia? O al di là dell’immagine della donna nuda sull’albero, che senso ha, si è tolta gli abiti inzuppati dalla pioggia. Piove anche mentre l’attrice aspetta un taxi che la porti alla stazione, è bagnata dalla testa ai piedi, i vestiti incollati addosso. Un cambio di luci e ci troviamo dentro un altro racconto. La narrazione di quel lontano passato diventa ricordo del futuro, cioè irrompe nel presente con tutta la sua potenza memoriale.

C’È LA VALIGIA dell’arrivederci e la valigia dell’addio, quella di chi sa che non tornerà e non vuole lasciarsi niente alle spalle. Dice così. C’è una casa da lasciare, si capisce che una storia sentimentale è finita. Un’altra casa tutta per sé da riempire ma per il momento completamente vuota e poca voglia di andare a far compere all’Ikea, alla fine arriveranno piuttosto i mobili della nonna. Ecco, viene da pensare che la nonna è colei che l’alluvione del Polesine allora l’ha vissuta e dunque attraverso di lei passa la memoria fisica che arriva a Matilde Vigna. Ed è questa memoria fisica che dà al racconto la concretezza delle cose sofferte. Bisogna scappare così, con quello che si ha, niente o tutto che si ha, ma per andare dove…
L’acqua è rifluita. Ne resta solo il segno, una riga nera sul muro. Al piano di sopra, dove si erano stipate anche le bestie per cercare di metterle in salvo. Il magazzino delle vite passate non si svuota, continuano a interrogarci. Forse in attesa di una redenzione. Bigmouth strikes again, cantano gli Smiths.