Un rituale settennale proibito durante il fascismo che ai nostri giorni ha assunto grande popolarità, tanto che migliaia di persone ma soprattutto i mass media internazionali (BBC, CNN, NBC, Al Jazeera) affollano Guardia Sanframondi, piccolo borgo medievale in provincia di Benevento, rischiando di ledere l’aura di sacralità che circonda i Riti dei «Battenti» in onore della Madonna Assunta.
Un rituale composito, consolidato nel contesto socio-politico e religioso locale, percepito dai Guardiesi come «la Festa», decodificata come struttura sostanziale della loro tradizione culturale. «Siamo in presenza di culture di colpa, culture, cioè, nelle quali gli eventi di storia e di natura che determinano il rischio di crolli esistenziali vengono deferiti non già alla casualità delle forze estranee che dominano la vita dell’uomo, ma alla responsabilità personale collettiva», afferma Alfonso Maria di Nola.
LA SPUGNA CHIODATA
Una macchina teatrale liturgica e scenografica, un’azione performativa, un mea culpa collettivo dell’Occidente, dove migliaia di uomini incappucciati, biancovestiti e protetti da un infrangibile anonimato si battono il petto a sangue per la Madonna Assunta. Lo strumento è la «spugna», un disco di sughero in cui sono infilate trentatré punte di metallo acuminate, tante quanti gli anni di Cristo.
Un rituale – insieme ai Vattienti di Nocera Terinese e ai Battenti di Verbicano in Calabria – che rievoca una cultura folklorica nella quale lo spargimento di sangue placa l’indignazione divina e implora il suo intervento misericordioso. Una funzione rituale, una tradizione che per sette giorni e ogni sette anni – con tutti i simbolismi connessi alla reiterazione del numero sette – coinvolge la comunità, i partecipanti o i curiosi.
Un rito metastorico in cui la partecipazione è un «momento» topico che rientra nell’ambito collettivo della sacralità più arcaica. Secondo la tradizione popolare, l’origine dei Riti risale al rinvenimento di una statua della Vergine. Le varianti sono differenti, ma palesano dei tratti peculiari illuminando la stretta relazione del culto mariano col mondo agrario e con la pratica penitenziale della flagellazione. Un culto, dunque, che risale all’inizio del Millennio, alle origini stesse del paese: il castello è stato costruito dalla famiglia normanna dei Sanframondo nel 1139. Qui probabilmente è stata portata, proveniente dalla chiesetta di Limata, la statua lignea col Bambino che, in braccio alla Madonna, scoperta sottoterra dai maiali, aveva tra le mani una «spugna», esattamente lo stesso strumento della penitenza, di sughero e spilli, usato oggi dai «Battenti». Oggetto che ha indotto per la prima volta, al momento del ritrovamento della statua, quel gesto penitenziale ancora oggi ripetuto, consistente nel battersi a sangue. La tradizione orale spiega dunque le parti più conosciute di queste processioni, i «Flagellanti» e i «Battenti» a sangue, ma poco si conosce relativamente ai dati storici. Molti parlano della sua origine medievale, ma la documentazione probante è poca. I primi documenti certi risalgono al XVII secolo.
I GIORNI DEI RITI
Tutto principia il lunedì dopo la festività della Madonna Assunta il 15 agosto, terminando la domenica successiva. Una tradizione che nel tempo ha saputo mantenere la propria particolarità coinvolgendo i quattro rioni: Croce, Portella, Fontanella e Piazza. I quali, nei giorni dei Riti, s’alternano nei cortei dei «Misteri» (scene raffiguranti episodi dell’antico e del nuovo Testamento, ma anche la vita dei Santi) e partecipano in giorni diversi a due processioni, chiamate una di «Penitenza», l’altra di «Comunione». Quella di «Penitenza» comprende i «Flagellanti» che si percuotono ritmicamente le spalle con una catena di ferro – strumento detto «disciplina» – alla quale sono unite alcune lamine metalliche, e i «Battenti» nelle cui mani ci sono la cosiddetta «spugna», per colpirsi a sangue il petto, e un crocifisso.
La domenica suggella la fine della settimana dei Riti settennali con un’imponente manifestazione che dura dalle otto di mattina fino al tramonto. È il giorno dell’incontro fra i «Battenti» e la statua dell’Assunta. Il climax, atteso per sette anni, arriva quando i «Battenti» incrociano la statua di San Girolamo penitente, il patrono dei «Battenti», e nel medesimo istante il capo misterioso dà la perentoria intimazione: «Con fede e coraggio, fratelli, in nome dell’Assunta battetevi!». Tutti gli incappucciati ribattono colpendosi il petto all’unisono per tre volte, con una coralità che genera un cupo rumore di tamburo, e mostrano a tutti lo sgorgare del sangue che fa rabbrividire la folla che assiste in religioso silenzio al rituale catartico. Per ore i «Battenti» si colpiscono il petto con la «spugna», mentre diversi «assistenti» salmodianti e coronati di spine lo aspergono di vino per rendere il dolore più sopportabile.
IL CRUCIVIA
Nel saggio «Il ponte di San Giacomo. L’ideologia della morte nella società contadina del Sud», Luigi Maria Lombardi Satriani e Mariano Meligrana riportano la seguente affermazione: «Perché un individuo detto ’u lupu mannaru, cioè sofferente di tale male, guarisca, dev’essere ferito dietro le spalle, nel parossismo del male, ad un bivio di strada «crucivia» con una punta di un coltello, in modo da uscir poco sangue; oppure deve essere punto con uno spillo alla fronte, e si deve versare una goccia di sangue soltanto». Tale testimonianza evidenzia come il «crucivia» sia un luogo simbolicamente essenziale dello spazio folklorico. Infatti, è proprio all’incrociarsi delle strade del percorso processionale che i «Battenti», incontrando la statua della Madonna, enfatizzano il rituale di spargimento del sangue. Il sangue viene versato penitenzialmente per allontanare la siccità, affinché la pioggia acconsenta il compiersi stagionale del ciclo agrario, ma anche per proteggere la comunità agricola da una dannosa abbondanza di pioggia. Quello di Guardia Sanframondi non è fanatismo religioso; è un intenso/immenso rituale identitario, dove la comunità ribadisce con vigore il legame di appartenenza che ha nella Madonna il proprio simbolo.
Una struttura che coniuga il presente col passato. Un modus per essere contemporanei senza omettere l’arcaico, ovvero una modalità di realizzare il ricordo attraverso l’«invenzione» di una tradizione.
IL CORPO MARTORIATO
La memoria – scrive Luigi M. Lombardi Satriani – è «garante della continuità della vita»; è «continente sommerso che consente l’arcipelago delle esistenze»; in assenza di essa, «saremmo – singoli e società – radicalmente nullificati dalla morte». Un simbolismo che si dispiega intorno ai due opposti poli che nel sangue trovano una struttura sintetica essenziale: quello della «vita» e quello della «morte». Nella cultura popolare c’è un estremo utilizzo simbolico/espressivo del corpo soprattutto nei momenti rituali collettivi, che legittimano questi comportamenti. Un corpo martoriato che, identificandosi con la comunità, assume su di sé la sofferenza della divinità. «Lo spargere il sangue assume il significato di una redenzione cruenta dalle colpe che hanno determinato l’ira delle figure divine, secondo una forma del pensiero mitico che è già nell’antico Testamento, dove Dio volge la sua testa, quando il suo popolo gli è stato infedele, e allora piovono disastri e mali. E i mali di oggi, per questa gente, restano inesorabili e inspiegabili, e il sangue continua a essere versato per i figli emigrati, per la miseria, per la morte», scrive Alfonso M. di Nola.
Eretici della sacralità attraverso il dolore lacerante del corpo in cui la simbologia del sangue implica compositi aspetti identitari e relazionali, in primis tra individuo e comunità.