Rispetto ai portatori di menzogne che da sempre inquinano la buona fede, Pinocchio è un bugiardo innocuo. E non solo perché viene sempre subito scoperto bensì anche per il fatto di non usare mai, o quasi mai, la bugia in modo fraudolento. Da questa considerazione, con qualche probabilità, deriva il titolo volutamente contrastivo che Daniela Marcheschi ha scelto per una sua agile rilettura delle Avventure di Pinocchio, la più celebre opera di Carlo Collodi. Il naso corto (EDB, pp. 81, euro 8) è un titolo che provoca un piccolo cortocircuito. Come può essere usato per il burattino che proprio nel naso lungo ha la sua caratteristica universalmente riconosciuta? E se non ha questo naso lungo che gli ha permesso di dare il suo nome alla menzogna, chi è davvero Pinocchio?

LA TESI PORTANTE della riflessione è che Collodi non abbia mai voluto fare delle Avventure di Pinocchio l’epos del divenir mansueto. Una prospettiva che si riallaccia a una serie di studi e letture che hanno in vario modo aggirato e contrastato ogni interpretazione eccessivamente buonista della psicologia del burattino. Jarvis (psichiatra), Gasparini (sociologo), Garroni (filosofo), Manganelli e Compagnone (scrittori), giusto per citarne alcuni, non hanno mai creduto alla parabola della trasformazione di Pinocchio in esserino cortese. Ma in tempi più recenti, secondo Marcheschi, stanno per sventura prevalendo letture che piegano Pinocchio e la sua storia alla tipologia della testa calda che si ravvede; sminuendo e negando gli aspetti corrosivi messi in moto dall’azione favolosa e dallo spirito comico di cui è fatta la storiella del Burattino.

QUANDO PINOCCHIO apre gli occhi trasformato in bambino in carne e ossa, nella casina pulita e benestante, con gli stivaletti da parer dipinti, di fronte a un Geppetto ripulito, hai voglia a credere che lo sventurato si sia finalmente riscattato dalla sua condizione di minorità. L’ingenuo e schietto burattino, fatto ragazzo, nelle intenzioni del suo inventore non farebbe che entrare, invece, nel mondo della finzione borghese, in modo irreversibile e malinconico, definitivamente e consapevolmente perso tra gli adulti perbene.

È più che giusto rifiutarsi di fare di Pinocchio un conformista. Diventare ragazzo («Come ero buffo quando ero un burattino!») non è neppure la fin troppo ovvia immagine del passaggio dall’infanzia all’adolescenza, dall’incoscienza alla responsabilità. Sembra più un invito a tenersi stretta e segreta quell’anima ribelle e asinina, pazza e scriteriata, pur nella pelle e negli abiti della normalità. Quel modo «buffo» che piace perché incivile, e che qualche volta si vorrebbe (tornare ad) essere. Nel sostenere che Collodi non pensasse a una risoluzione disciplinata del personaggio, Marcheschi usa come argomento principale il richiamo alla natura umoristica della scrittura collodiana. E lo fa passando in breve rassegna alcuni episodi significativi della sua produzione, anche e soprattutto quella non destinata al pubblico adolescenziale, mostrando come fosse sempre pronta alla scherzo e allo scherno.

SE UN’ETICA C’È nello stile di Lorenzini è quella del riso, e in quanto tale questo autore che, va ricordato, continua ad essere quello di uno dei primi 3 o 4 libri letti e tradotti nel mondo, va annoverato tra i grandi rappresentanti della scrittura umoristica. Un tipo di letterarietà che proprio non riesce a penetrare la cortina dei costruttori di canoni.