Partendo dal presupposto, mai abbastanza ribadito, della nostra profonda disattenzione e ignoranza per il mondo vegetale, per l’alterità di quella presenza invece davvero dominante sul pianeta che sola consente che su di esso si dispieghi la vita – anche la nostra –, si avvia ora, per gli Editori Laterza, con intento risarcitorio, l’impresa di una serie di volumetti dedicati a incentivare la conoscenza dei protagonisti de «La Nazione delle Piante».
Una serie, diretta dal neurobiologo Stefano Mancuso, intesa a familiarizzarci con la varietà dei soggetti e delle popolazioni di quella nazione vegetale, illustrandone profili, parentele, forme organizzative, funzionamenti e modalità di comunicazione, come pure ripercorrendo le relazioni che con quelle piante noi animali umani intratteniamo, negli usi e negli immaginari.
Li si vuole libri di esplorazione di un universo incognito, dove associare elementi scientifici e contesti ambientali, usi pratici e sociali, andirivieni di mode e culture.
Si tratta, ovviamente, di personalità diverse. Individualità forti, dalla fisionomia inconfondibile fino a farsi icona di interi paesaggi, come per il mediterraneo Pinus pinea, detto anche pino a ombrello. O invece piuttosto di soggetti accomunati da estrema volubilità, da un’attitudine metamorfica, come per la camelia che, in virtù dell’abilità trasformativa dei suoi fiori, arriva a annoverare 22.000 varietà.
Affidati volta a volta alla penna di diverse, complementari curiosità e competenze, escono ora intanto i primi due volumi della serie dedicati appunto, rispettivamente, a La camelia, per la firma di Angela Borghesi, docente di letteratura italiana comparata con passione per la botanica (pp. 179, euro 16,00), nonché autrice su «Doppiozero» della rubrica Clorofilla, e a Il pino domestico, della botanica ambientale Giulia Caneva, esperta di vegetazione in ambito della conservazione dei beni culturali, (pp. 135, euro 16,00), studiosa del codice botanico di Augusto o dei significati simbolici del giardino dipinto della Villa di Livia.
Accomunati da una struttura per capitoli scandita in una prima parte che introduce a Una storia di famiglia – sorta di presentazione, molto efficacemente svolta per il pino in prima persona –, si prosegue poi a introdurre i Compagni di viaggio e ancora gli Usi.
Così, se per tracciare il profilo dell’infinita variabilità della camelia si individuano precisi descrittori, indici e forma dei petali, margini, palette di colori, variegature screziate o marmorizzate, sottolineandone sempre l’eccentricità, riflessa nella confusione onomastica e nel moltiplicarsi di eteronimi, la vicenda della Camellia japonica – la principale tra le ornamentali e la prima ad arrivare in Europa dall’area originale tra Nepal, Giappone, Indocina e Cina – si intreccia con quella della Camellia sinensis e della diffusione del tè che dalle sue foglie si ricava.
Su un doppio registro, la vicenda di quest’ultima procede così dalla prima descrizione letteraria del Canone del tè del 760 e dalla cerimonia poi elevata a culto nel Giappone del XVI secolo, fino alle intraprese del colonialismo inglese per impossessarsi del tè – per interposte Compagnia delle Indie orientali e Giardini botanici di Kew e con relativo strutturarsi oltremanica del rito laico della pausa a esso intitolata. Mentre, per altro verso, si ripropongono gli snodi del diffondersi della camelia ornamentale, dai suoi primi ritratti nel 1686 al folgorante successo. Che vede la japonica al centro di una vera e propria moda ottocentesca, in Lombardia, specialmente nella zona dei laghi, e in Toscana, tra banchieri cameliofili, ma anche per opera del coltivato floricultore calzolaio Carlo Madoni, o nella collezione stessa dell’appassionato Alessandro Manzoni. Fiore del romanticismo e del risorgimento, con esemplari intitolati a Luciano Manara come a Carlo Cattaneo, la camelia fu patriottica e perfino carbonara – anche la famosa associazione ebbe la sua camelia.
Nel succedersi delle mode floreali, e pur scontando gli inconvenienti dell’assenza di profumo e della tutto sommato ristretta tavolozza di colori dell’unica sua fioritura annuale, fu spesso fiore di tendenza, e ripresa da Chanel, nel vestire di classe a cavallo tra Otto e Novecento su baveri e scollature. Così pure, il suo successo è testimoniato nell’arte, dalle pagine di Proust all’intestazione eponima alla signora dell’opera di Alexandre Dumas (figlio).
E se compagne di viaggio delle camelie – oltre le esotiche che le affiancano nei giardini di ville altolocate – sono le acidofile con le loro associazioni, per il pino è la macchia mediterranea, con le sue forme, profumi, colori, nell’ecosistema di comunità rappresentato dalla pineta che presto si fa formazione storico-culturale. Coltivato già dai Romani tremila anni fa, il pino che si dilata nello spazio rincorrendo la luce in progressione frattale, vede la sua vicenda intrecciarsi con i riti di primavera della dea Cibele e di Attis per ritrovarsi poi nella Roma di Sisto V in file disposte sulle maggiori vie di collegamento tra le chiese percorse dai pellegrini, nelle alberate d’età napoleonica come poi nelle risistemazioni archeologiche, tra le piante della romanità di Giacomo Boni. Icona identitaria, assieme a querce e cipressi, trascorre dall’idea del Grand Tour alle vedute ottocentesche, negli echi della voce dei poeti del Novecento, Pirandello, D’Annunzio, Deledda, fino al poema sinfonico di Ottorino Respighi intitolato proprio a I pini di Roma.
A combinare il taglio intrigante, che per tanti versi attualizza l’anelito di una divulgazione intelligente, alla Ippolito Pizzetti, i volumetti monografici sono poi corredati, al fondo, di una sezione intitolata Galleria di ritratti, dove si allineano raffinate tavole botaniche – perlopiù illustrazioni tratte da testi ottocenteschi – e schede che inquadrano ciascuna un parente del protagonista. Di cui si rammentano grado di prossimità, caratteristiche principali, tratti fisiognomici del disporsi del fiore, foglie, cortecce, portamento, epoca della fioritura. E ancora, fissata la provenienza, si risalgono fasi e vicende dell’introduzione in Europa, per via di riconoscimenti botanici, premi, medaglie, districandosi nella confusione di fantasiose grafie e storpiature nomenclatorie, nell’incertezza riguardo paternità di vivaisti, dedicatari, date d’origine d’ibridazione.
E ancora, così, sempre allargando, con varietà d’usi e costumi, in una genealogia di avi, fratelli, cugini, provenienti da areali e da storie via via più diverse e remote, a pervadere l’intero pianeta d’estetici incantamenti e ingegnose soluzioni adattative cui davvero vorremmo ispirarci.