La Terra dell’Aquila e del Serpente è una vera ossessione letteraria per Pino Cacucci, lo scrittore di Alessandria, che da 35 anni attira lettori e viaggiatori in quella che è la sua autentica seconda patria, il Messico. L’occasione di un nuovo viaggio fra realtà e fantasia è arrivata dall’amicizia con l’illustratore milanese Stefano Delli Veneri, lui pure affetto da «insana» passione per il México verdadero. L’incontro è all’origine del romanzo grafico, Mujeres (Feltrinelli, 144 pp., € 15), storie e passioni delle donne protagoniste nella Città del Messico degli anni ’20 e ’30 di rivoluzioni e cambiamenti. L’icona Frida Kahlo, e altre meno note, Lupe Marin, Antonieta Rivas Mercado, Pita Amor. E la pittrice Nahui Olin, già apparsda in precedenti opere di Cacucci.

 

Con «Mujeres» sei tornato di nuovo in Messico, tra le figure che ne segnano la storia…

Parafrasando Galeano potrei dirti che Mexico me duele, il Messico mi fa soffrire per tutto quello che accade laggiù e che però qui si percepisce poco. Da noi, spiccano le notizie negative, le nefandezze, gli orrori; ma là, i tanti messicani che conosco e frequento mi ricordano che esiste sempre un Messico pieno di dignità e orgoglio che non si arrende e quindi mi dà sempre nuovi stimoli per scrivere. E visto che il presente c’è chi lo narra meglio di me, preferisco attingere al passato, come con in questa galleria di donne inestimabili.

 

 

Ti eri già misurato con Frida Khalo e Nahui Olin.

Stavolta c’è il desiderio di mettere in evidenza anche personalità rimaste finora sullo sfondo. che fra gli Anni ’20 e ’30 hanno dato una sferzata di rinnovamento alla società messicana. Penso a Elvia Carrillo Puerto, alla quale credo si debba la primogenitura del termine femminismo. O Chavela Vargas, la cantante che ha incarnato l’essenza della «messicanità», o ancora Antonieta Rivas Mercado, già citata in Nessuno può portarti un fiore, morta suicida a Notre-Dame di Parigi senza che ne reclamessero la salma. O Nellie Campobello, che fu una grande scrittrice rimossa nel suo stesso Paese.

 

 

Come avete ricostruito le storie delle protagoniste?

Lo sforzo è stato utilizzare gli eventi realmente accaduti, perché ci interessava svelare retroscena o aspetti curiosi del passato. Per esempio, parlando della storia d’amore fra la grandissima inviata speciale statunitense Alma Reed e il fratello di Elvia Carrillo Puerto, abbiamo sottolineato che i gringos si sono fregati la maggior parte del patrimonio archeologico dello Yucatan dragando i cenotes per portar via oro e pietre preziose. Il tutto, però, senza farci mancare qualche piccola licenza. Per esempio, immaginando che Nahui nel 1970 fosse ancora abbastanza lucida da ricordare i fatti, quando dal poco che si sa era considerata un po’ la vecchia gattara che se ne andava in giro per Bellas Artes a vendere le sue vecchie foto osé per pochi spiccioli. Un finale da dimenticata che non le rendeva giustizia.

 

Il libro sembra sostenere che il Messico degli anni ’30 fosse più aperto e cosmopolita di quello attuale.

Ottant’anni fa, Città del Messico era tanto avanti che per arrivare allo stesso livello gli States e l’Europa ci hanno messo un altro mezzo secolo. Ma nonostante tutte le conquiste che ci teniamo ben strette, questa sembra un’epoca dominata da rigurgiti di oscurantismo anche in Messico. Perché è vero che nello Stato di Mexico DF c’è una legislazione molto aperta in fatto di unioni gay, aborto e buona morte. Ma nello Stato confinante di Puebla, l’aborto è punito con la galera. È una situazione schizofrenica, che però in alcuni casi tiene conto dei semi piantati dalle nostre protagoniste.

 

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In che modo avete lavorato su sceneggiatura e disegno?

All’inizio pensavamo a un romanzo grafico solo su Nahui Olin. Finché un giorno, mia moglie Gloria ha buttato lì: «Perché non provate a fare un affresco di quell’epoca»? Così abbiamo tentato di tornare su personaggi di cui avevo già parlato da un punto di vista inedito. All’origine c’è una scaletta che avevo realizzato io e su cui abbiamo costruito bozzetti e dialoghi. Ci sono stati ripensamenti su testi o disegni che non ci soddisfacevano ma sempre a quattro mani. Penso alle due pagine finali: vista la litania di morti, feriti e melodrammi di cui è disseminata la storia, ci tenevamo a chiudere dicendo che la vita può essere anche tragica, ma nessuno può toglierti ciò che hai vissuto.

 

Una curiosità: perché il tequila è diventato «la» tequila?

Si tratta di una piccola licenza letteraria partita da una battuta di Chavela Vargas, che lamentava che in Messico non si trovasse più un goccio di tequila decente perché se l’era bevuto tutto lei. Inoltre tequila finisce con la «a», e in Italia c’è il vezzo di considerarla femminile: utilizzare la forma corretta al maschile ci sembrava una forzatura machista, quindi ci siamo adattati alla femminilità «del» tequila.