Portare l’atletica nei quartieri popolari di Milano come impegno politico negli anni ’70, la crisi dell’atletica italiana oggi, priva di risultati rilevanti e senza medaglie, le società di base lasciate a se stesse, la soddisfazione di essere partiti da un quartiere popolare come Quarto Oggiaro e vincere la medaglia d’oro ai mondiali.

Pietro Pastorini, allenatore della 20 km di marcia, ha mandato decine di ragazzi in azzurro, oggi allena la nazionale Svizzera. Alla vigilia dei mondiali indoor, che si svolgeranno a Portland, negli Stati Uniti, dal 17 al 20 marzo, parliamo della crisi che affligge l’atletica italiana.

Quando hai iniziato a fare l’allenatore?

Nel 1973, io e un mio amico lettore del manifesto, Tiziano Masotto, lui gareggiava nei 400 e 800 metri, io facevo le gare di marcia, ci siamo chiesti perché non portare l’atletica leggera nelle periferie? L’atletica sotto forma di gioco, per consentire ai ragazzi di acquisire le capacità motorie fondamentali, saper correre, saper saltare, essere in grado di fare una capriola, sembrano cose banali, ma oggi non lo sono. Dal 1968 abitavo a Quarto Oggiaro, un quartiere popolare dove vive gente modesta, a stento del proprio stipendio, utilizzammo una palestra scolastica, dopo le lezioni ce la concedevano gratis, accettavamo tutti senza discriminazioni, promuovevamo l’attività fisico-motoria gratuitamente. Nella palestra della scuola si facevano esercizi di stretching, provammo anche a insegnare il salto in alto, ma i materassi erano di gommapiuma trita e i ragazzi si facevano male. In via De Pisis, una strada a fondo chiuso, sul marciapiede ogni 50 metri segnammo le strisce, quella era la pista. Promuovevamo la corsa e la marcia, vincemmo una gara a staffetta sui 400 metri femminili ai campionati provinciali. Oltre a Quarto Oggiaro, operavamo anche al Gallaratese e alla Comasina.

Tutti quartieri popolari?

La nostra fu una scelta politica. Erano quartieri dormitorio, dove la gente esce al mattino presto e torna la sera stanca, non c’è nulla, mangiano, dormono e vanno a far la spesa. I figli di queste persone sono dei disadattati, dediti alla malavita, abbiamo allenato ragazzi poi morti sparati in conflitti a fuoco, altri di overdose, ci amavano e rispettavano perché non li discriminavamo, abbiamo sempre dato. Purtroppo non siamo riusciti a impedire che alcuni di loro morissero. Siamo riusciti a convincere la gran parte dei ragazzi della stupidità di fumare una sigaretta, per quanto noi allenatori fumassimo, dell’effetto nocivo che aveva sulla salute, in fondo fumare era semplice, alla portata di tutti, difficile era fare la maratona e vincere, eravamo riusciti a spostare il terreno della sfida sull’aspetto agonistico e sulla necessità di allenarsi e avere voglia di raggiungere certi traguardi.

I risultati agonistici sono arrivati?

Partendo da Quarto Oggiaro siamo arrivati in cima al mondo, perché Michele Didoni ha vinto il campionato del mondo di marcia ai mondiali di atletica di Goteborg, nel 1995, questo dimostra che partendo da un’attività di base e lavorando bene si possono ottenere risultati. Quell’anno Gianni Perricelli fu vicecampione del mondo nella 50 km di marcia, viene dal Gallaratese. La mia è una formazione autodidatta, non mi ha impedito di conquistare 13 medaglie di livello internazionale con gli atleti che ho allenato.

Quelle società sportive esistono ancora?

Futura di Quarto Oggiaro è operativa, sono passati tutti quelli nati tra il 1958 e il 1975, contava ottocento tesserati, promuovevamo l’atletica, la pallavolo, il basket, il twirling, la ginnastica per adulti, e non abbiamo mai preso soldi. Recentemente il presidente del Coni Giovanni Malagò ha fatto un giro nei quartieri popolari italiani, è stato allo Zen di Palermo, a Scampia a Napoli e a Quarto Oggiaro, quando è venuto da noi gli ho detto che nella palestra dove ci trovavamo in quel momento si è formato Michele Didoni, un campione del mondo.

Malagò ha fatto un giro pro forma oppure quella visita rappresenta un’inversione di tendenza nella politica del Coni?

A queste domande preferirei non rispondere, ufficialmente Giovanni Malagò ha fatto un giro promozionale, diciamo di immagine. Il Coni non ci dà un euro per l’attività sportiva a Quarto Oggiaro, però ci ha fatto piacere che sia venuto.

Il Comune di Milano vi ha mai dato contributi economici?

Una volta partecipammo a una riunione per avere dei finanziamenti, ottenemmo un contributo di 100 mila lire, una cosa umiliante, li avrei messi di tasca mia. I veri sponsor di queste realtà sportive di base dovrebbero essere gli enti locali.

Sei un emigrato dell’atletica, alleni la nazionale di marcia della Svizzera.

Ho un incarico ufficiale dal 2002. Ai mondiali di atletica di Pechino, svoltisi a settembre del 2015, in albergo ci siamo ritrovati sei allenatori italiani che indossavano tute di nazionali straniere, sono tutti allenatori che hanno vinto medaglie con i loro atleti in competizioni internazionali importanti. Uno di quei sei è l’allenatore della nazionale dell’Uganda, è un siciliano che vive a Siena, a Pechino con un ragazzo dell’Uganda ha conquistato il bronzo nella maratona.

Chissà perché in Italia accadono queste cose? La Fidal favorisce la nascita di società sportive in aree periferiche, oppure ognuno si arrangia?

Ognuno si arrangia. Quando andiamo in giro per le gare, la sera precedente ci riuniamo in trenta quaranta allenatori e ci confrontiamo, ognuno dice la sua, il confronto arricchisce le nostre conoscenze, ma tutto finisce lì.

Che cosa bisognerebbe fare per rilanciare l’atletica?

Nel 1969 ad Affori, un quartiere periferico di Milano, partecipai al primo trofeo Frigerio, sono sette o otto garette per ogni stagione, dove i bambini dai cinque anni in su fanno 700-800 metri di marcia. Da allora tutti gli atleti del nord Italia, che si sono distinti a livello agonistico, sono passati per quel trofeo. La Fidal dovrebbe promuovere una politica forte per l’attività di base, a cominciare dai trofei di atletica.

La Fidal vi ha mai aiutati a organizzare nelle scuole elementari trofei del genere?

No, mai. Per avviare politiche di promozione di base bisognerebbe studiare il movimento delle società di base. In Francia ottengono grandi risultati di vertice perché curano l’atletica di base, le risorse vengono dal ministero dello Sport, il punto di partenza è la scuola elementare. La Fidal in questi anni ha fatto un’altra politica.

I vertici della Fidal non ascoltano la voce della base delle società?

Formalmente si, concretamente no. A settembre 2015 a Pechino ai mondiali di atletica l’Italia ha toccato il fondo, non solo perché non è riuscita a conquistare una medaglia, ma per i risultati. Se dieci atleti raggiungono il quarto posto, ti rammarichi, non conquistano il podio, però la differenza rispetto a chi ha vinto una medaglia è di pochi centesimi di secondi, a Pechino abbiamo ottenuto un solo quarto posto. L’Italia nell’atletica ha una grande tradizione, dalla velocità ai salti fino alla marcia, dove abbiamo vinto otto ori olimpici. Sia da un punto di vista tecnico sia per i risultati abbiamo toccato il fondo, l’atletica italiana vive la crisi più profonda dal dopoguerra a oggi. L’Italia nell’atletica ha una grande tradizione dalla velocità ai salti fino alla marcia dove abbiamo vinto otto ori olimpici.

Perché la Fidal non affronta la crisi?

La voglia c’è, ma le strategie tecnico-politiche non prevedono di ripartire da zero. Attualmente c’è un commissario tecnico nazionale che dovrebbe sapere tutto di tutti, è difficile che accada realmente. Tornerei al passato, quando c’erano un capo tecnico sia maschile che femminile, dei capi settori, questo accadeva nei periodi d’oro dell’atletica. Dal 1990 al 2000 sono stato collaboratore di Maurizio Damilano, in quel decennio conquistammo 150 medaglie nel settore della marcia e avevamo questa struttura piramidale. E’ un problema di organizzazione, a volte devi avere l’umiltà di confrontarti e sentire quello che dice l’ultimo cittadino del tuo paesino.

Il futuro dell’atletica italiana?

Con la crisi di oggi abbiamo toccato il fondo, ma io sono ottimista. Se sono partito da Quarto Oggiaro e arrivato in cima al mondo, vuol dire che le cose possono cambiare.