Abbiamo incontrato Pietro Marcello a Roma in occasione della venticinquesima edizione del Medfilm Festival, presieduto da Ginella Vocca e diretto da Giulio Casadei. All’interno del programma (94 film per 36 paesi), gli organizzatori hanno dedicato una serata evento al regista campano con le proiezioni di La bocca del lupo e Bella e perduta. La conversazione è partita dalle origini, dal primo film dedicato ai treni notte, ai viaggi immaginari e all’umanità che su quei treni trascorre parte delle propria esistenza. «Sono molto affezionato a Il passaggio della linea perché avevo 28 anni ed eravamo tutti un po’ ubriachi di inconsapevolezza, non sapevamo cosa fosse realmente il grande baraccone dell’industria del cinema. I treni rappresentano il futuro perché lasci il passato alle spalle e il presente è solo il tempo del viaggio. Quando sono scappato di casa a 15 anni ho preso un espresso notte e sono andato a Parigi, ho avuto sempre questo legame con i treni e mi piaceva l’idea di raccontarli. Prima di fare un film però, per me c’è sempre un’inchiesta da realizzare. Ho il modello di Nuto Revelli e Danilo Montaldi, la memoria orale… Parto dall’inchiesta per poi raggiungere il film e il poema».

Quanto è stato determinante il tuo percorso produttivo per la scelta dei temi e delle modalità narrative?
Tutto quello che ho realizzato è stato possibile perché mi sono sempre autoprodotto, non ho mai avuto dei veri padroni. Ho fatto un percorso solitario anche se credo nel cinema militante delle pulsioni sociali. Soprattutto in un tempo dominato dall’individualismo, dal narcisismo e dall’edonismo sono convinto sia necessaria una militanza dal basso in ogni aspetto della società.

Credi che nel cinema italiano manchi il coraggio di schierarsi e di sperimentare, oppure è un problema che riguarda le produzioni?

Quello delle produzioni è un mondo di esecutori, non di chi fa ricerca. Ho deciso di produrre da solo i miei film, non per volontà ma per necessità, per avere il controllo di quello che facevo. Questo però mi è costato caro e del duro lavoro perché probabilmente non ho fatto bene né il regista né il produttore. Oggi però, ancora di più dopo Martin Eden, continuo a credere in un cinema necessario che deve diventare strumento per i giovani. Il cinema è un’arte spuria, non è pura come la poesia, o la scultura, è un’arte un po’ cialtrona che possono fare tutti (sorride ndr). Credo che si possano cercare altre strade per fare cinema, perché in sé ha avuto una vita relativamente breve e non si è continuato a fare ricerca, a osare come si faceva nel cinema muto.

Nei tuoi film la storia narrata va sempre di pari passo con il racconto della grande storia, che emerge dal materiale di archivio.

Sì perché non potrei elevarmi al di sopra degli archivi, il mio è un cinema che fa e produce archivio nel tempo. Io sono uno che gira ancora in pellicola, ho la camera oscura, mi sviluppo il 16mm. Per me l’atto di filmare è già l’atto di filmare la storia; il mio materiale, il mio cinema diventerà archivio. In Martin Eden era importante utilizzare l’archivio per raccontare la grande storia. Come potrei raccontare il dopoguerra a Napoli quando la città era sventrata dalle bombe? Dovrei fare una messinscena che non avrebbe lo stesso impatto, avrei bisogno di un capitale enorme e probabilmente non ci sono neanche più le maestranze per la ricostruzione. Al tempo stesso non potrei elevarmi al di sopra del romanzo di London perché questo è un film. Quello che porto con me sono dei momenti di cinema, non porto il film nella sua completezza; come tutti i film che ho visto e che amo non penso alla loro unicità dall’inizio alla fine, penso a degli attimi, a delle suggestioni.

Durante la lavorazione dei tuoi film il montaggio procede di pari passo con le riprese, in che modo il regista Artavazd Pelesjan ti ha influenzato?
Il silenzio di Pelesjan è stato come un diploma di scuola per me. Tra l’altro spero un giorno di rimetterci mano perché ho nuove cose da dire su quella vicenda. Ho continuato a studiare, mi sono evoluto, ho scoperto il montaggio a distanza e so che Pelesjan lo ha teorizzato ma prima di lui c’è stato chi ha creato il solco per il montaggio contrappuntistico. Quello su Pelesjan non è un film, credo sia un ritratto riguardo ad un metodo che mi affascina. Come Bresson e Rossellini non credo nei modelli ma nel metodo. Quando ci si riferisce al documentario si parla del reale, ma cos’è reale? Non esiste. Il cinema è la trasposizione del reale, i surrealisti dicevano che si va al cinema per rubare emozioni a noi negate nella vita quotidiana. Il cinema è questo, noi scegliamo da che parte stare attraverso il montaggio.

Sottoproletariato, lotta di classe, rapporto uomo-natura…«Martin Eden» sembra l’esito naturale del percorso che hai intrapreso con i tuoi lavori precedenti.
Per me si chiude un ciclo. Mi dissocio completamente dal personaggio negativo di Martin Eden, non a caso all’inizio ho inserito Malatesta, padre del volontarismo etico, per proteggere il film.
Io non sono contro l’individuo, l’individuo è possibile solo nel socialismo, senza socialismo è solo capitalismo e barbarie ed è quello a cui assistiamo in questo tempo. Il film fa incazzare gli ex comunisti, quelli che hanno tradito il mandato, quelli che amano il socialismo ma che si sono venduti al capitalismo. Martin Eden è un film sul tradimento della classe di appartenenza.
Oggi la lotta di classe è rappresentata dai paesi ricchi che opprimono i paesi poveri.

Il pensiero di London è ancora attuale?
Martin Eden è il ragazzo che si riscatta e poi si ammazza; quando uscì il romanzo la gente chiedeva come mai un libro così bello finisse in quel modo e London rispondeva che ciascuno ha il suo Martin Eden. È stato un attacco all’individualismo. Quello di London, che aveva letto Spencer, è un socialismo delle origini. Nel film ad esempio si vede Gesù Cristo nella bandiera rossa, prima della Rivoluzione d’ottobre c’era ancora confusione. Per me Martin Eden è un film molto attuale. A tavola Martin fa un discorso ai neoliberisti di oggi, nella seconda parte c’è il sovranismo, il populismo, il fascismo ma nessuno immaginava 40 anni fa che ci saremmo trovati a parlare di fascismo come se fosse una cosa normale. Questo è il corso e il ricorso della storia. Credo che l’uomo sia storto e che l’unica speranza sia l’educazione dei giovani. Il nostro secondo Risorgimento è stato l’antifascismo, abbiamo avuto Giustizia e Libertà, il Partito d’Azione ma con la «notte della costituente» è finito tutto. Carlo Levi lo ha raccontato molto bene in L’orologio.
Il pericolo del fascismo c’è perché è una questione prettamente culturale.

Le storie che hai scelto per i tuoi film mi ricordano i racconti di Martin Eden. Sei sempre stato attratto dal popolo degli abissi?
Sì da Il popolo degli abissi ma anche da The Road to Wigan Pier di George Orwell che è un’inchiesta che associo a quella di London. I protagonisti sono gli uomini in rivolta di Camus: Arturo europeista libertario, Tommaso che rappresenta la rivolta di Spartaco e Enzo, un altro rivoltoso. Una volta mi chiesero come facevo a raccontare queste storie dal basso, in realtà raccontare la gente semplice non è un problema, ho imparato ad ottenere la loro fiducia facendo inchiesta, è più complicato saper raccontare i ricchi che sono un po’ noiosi e antipatici.