Paolo Pietrangeli è stato così intrinseco, così necessario a mezzo secolo della nostra storia, delle nostre vite, della nostra immaginazione e dei nostri desideri, che non riesco a pensare come può essere un mondo in cui Paolo Pietrangeli non c’è più.

L’ultima canzone che ha scritto, che credo non abbia fatto in tempo a incidere, diceva: l’alba con il tramonto si confonde, dipende da che parte stai a guardare. Adesso che ci guarda dall’altra parte, tutti noi possiamo dirgli solo: “Io ti voglio bene, avanti, avanti, con te o senza di te”. Senza di te perché non ci sei, con te perché ci sei.

Ci sarà tempo per ricordare le sue canzoni, militanti, irriverenti, sempre ribelli, mai banali, per ricordare i suoi film e i suoi documentari, per rileggersi i divertenti gialli degli anni più recenti. Ma per adesso, è difficile parlare.

Per questo vorrei salutarlo con le parole che, su sua richiesta, scrissi per presentare il suo ultimo disco, un vinile intitolato Amore amore amore, amore un… . Era scritto al presente, e lo lascio così.

C’era una battuta, un tempo spiritosa, poi diventata un po’ avvizzita per il troppo uso. Diceva: “sono marxista – tendenza Groucho, non Karl”. Ora, Paolo Pietrangeli è una delle pochissime persone che conosco che sono capaci non solo di giocare in tutte e due le tendenze, ma di farle interagire fra loro, di mettersi la maschera di Groucho per agitare sullo sfondo il fantasma di Karl.

E parlo di maschera anche perché il gioco di parole, l’umorismo, l’autoironia, l’irriverenza gli servono, come una forma di pudore, a proteggere la profondità delle sue passioni concrete. Per capirsi: per poter parlare d’amore, come in tante sue canzoni, bisogna cominciare dicendo “amore un cazzo”. Amore, amore, amore – che imbarazzo!

Io mi sono entusiasmato per Rossini, per Contessa, per Uguaglianza. Ma mi sono innamorato delle canzoni di Paolo Pietrangeli grazie alla prima parola dello Stracchino – “Avendo…” Solo uno che ha fatto il travet, l’impiegato di concetto tutta la vita comincia una storia con un gerundio – e passa tutta la vita guardando un cielo che non toccherà mai. Oppure esplorando l’ambiguità, in un’altra canzone, di quelle “verità piegate in tasca” – verità precostituite prêt-à-porter, o verità talmente intime e preziose che si possono solo ripiegare e nascondere perché non vengano violate?

Il suo ultimo disco, un sorprendente regalo in forma di vinile, è un’esplorazione sulle origini di questa poetica. A me viene in mente il Bruce Springsteen che sul palco di Broadway infila una ghirlanda di canzoni per raccontarci come è diventato se stesso. La differenza è che Springsteen si mette a nudo, Paolo si scopre, si nasconde, si lascia intravedere, ci manda su sentieri senza uscita e poi ci riprende per mano e ci riporta qui…

Tutti e due, comunque, cominciano dal padre – il bambino seduto al volante in giro per my hometown, il bambino che impara a parlare e a guardare vedendo passare davanti ai suoi occhi infantili la spina dorsale del cinema italiano in un tempo in cui valeva la pena. Qui impara il gusto per le catene verbali, le rime straniate, le filastrocche, le figure familiari (la portiera, il cameriere…) svisate in surrealismi felliniani. Perché quello era un cinema visionario, e un bambino che se lo vede passare per casa impara anche a non smettere mai di andare “a caccia di sirene”.

Ha cantato: “Io vorrei che questa filastrocca che m’è uscita dalla bocca fosse intesa come vituperio e offesa…” Vituperio e offesa sparati giocando, a chi ha sparato addosso alle speranze, ai sogni, alla felicità, forse a una rivoluzione che non si potesse fare senza giocare. Piangeva ridendo la fine di una visione e di “una situazione”. Ma la storia non è finita, “tornerà a soffiare il vento”, dice, dialogando con il Bob Dylan dei tempi migliori.

Allora, volevamo dare l’assalto al cielo. Come diceva nella canzone dello stracchino, da allora a oggi il nostro cielo “s’è alquanto avvizzito”. Ma Paolo Pietrangeli ci aiuta a immaginare ancora di ”toccarlo con un dito”. E chissà che alla fine non ci si riesca.