Deluso dall’insuccesso di Moby-Dick e delle opere che seguirono – i magnifici Piazza Tales, l’enigmatico Benito Cereno e l’altrettanto enigmatico The Confidence Man –, Herman Melville si chiude nel silenzio della dogana di New York, con una paga da spiccioli. Sino ad allora la sua celebrità di autore di romanzi di mare in resa realistica aveva trionfato, adesso era defunta. Si era compromesso a causa di un romanzo/allegoria che si avventurava troppo nel mondo delle tenebre. Ecco quindi Bartleby e le poche parole deneganti che l’eponimo giovane chiaro-veggente sa dire. Siamo intorno al 1857. Melville ha una famiglia da mantenere, molto lavoro scrittorio alle spalle, incluso Pierre che seguì a ruota Moby-Dick, anch’esso un insuccesso. Ha ancora trentaquattro anni da vivere.
A dispetto di una vocazione di narratore puro e cosmico, disattesa dal pubblico con la sconfitta nelle vendite del suo capolavoro del 1851, dopo qualche anno, egli si volgerà all’essenzialità della poesia, e al servizio pubblico, pronto a entrare in azione se l’infausta guerra fosse mai disgraziatamente esplosa: «Quando vedo le nubi atre dell’oceano addensarsi / sulle colline dell’interno e stendersi infuriando / nel bruno del tardo autunno /… / allora penso ai cupi mali della mia terra». Per ora sono ancora Presentimenti. Gli Unionisti non volevano quella guerra, ma per Melville, unionista, essa era, in ogni caso, la «tempesta» che avrebbe squinternato il naviglio del suo paese, affondandolo.
I presentimenti s’annebbiano per tre anni. La mela bacata non è ancora abbastanza marcia. Anche per tirarsi su di salute, con l’aiuto finanziario del suocero, Melville decide ancora una volta di prendere la via del mare per visitare Costantinopoli e la Terra Santa. Si reca prima a Liverpool, dove incontra Nathaniel Hawthorne, l’amico più fortunato divenuto Console in Inghilterra. Quindi, s’imbarca per Costantinopoli, spostandosi poi a Gerusalemme, la Grecia e infine a Roma, che visiterà in pochissimi giorni, costernato e, nonostante il puntuale diario quotidiano, fuori del tempo: Shelley, Beatrice Cenci (che emerge incestuosamente in Pierre) alla Galleria Corsini, il Colosseo, le Terme di Caracalla, Santa Maria Maggiore, San Pietro. Andrà in altre città, incluse Pompei, Firenze e Venezia.
Da questo tour complessivo matureranno il lungo e denso poema Clarel e poesie cosiddette «minori», sebbene di grande importanza nella visione che esse restituiscono.
A casa la guerra è pronta a entrare in scena. Ed entra infatti con il conseguente intervento meditativo – da astante – di Melville, ritenuto disabile all’arruolamento. Dai morti nasceranno i Battle Pieces, che Roberto Mussapi traduce per noi in modo esemplare, assieme ad altre poesie di mare e di pellegrinaggio, con l’aggiunta di un Prologo e di una Postfazione: Poesie di guerra e di mare (Mondadori «Lo Specchio», pp. VII-180, euro 20,00).
Già in Conflitto di convinzioni il tono che si assume è apocalittico: «la derisione agita il profondo abisso, / il silenzio ostile del cielo incombe su tutto. / Torna, speranza ardente / affronta la seconda caduta dell’uomo. / … / la forte Necessità sorge e ammucchia / naufragi sulle rive del tempo. / … / la folla si accalca intorno al cuore / e dalla nera oscurità genera lo spettro».
In Apatia ed entusiasmo si teme il peggio del peggio: «“Tutto è perduto” e il grido / recava il grido degli eventi come schianti / di tuono in una massa di ghiaccio, nel gelo / implacabile, uno sull’altro attraversavano / l’orrore del silenzio. E il braccio / paralizzato nell’angoscia del cuore / e quel grande vuoto, la morte. / Mentre la madre gridava a ogni fratello / “Non separarti così, salvati almeno dall’odio” /…/ Poi le occhiate / tra le Parche, poi ovunque un dubbio: / e la pazienza nel buio attendeva pietrificata / l’esecuzione /… / ma i vecchi preveggendo piansero i giorni / perduti per sempre: e ricordavano / il proverbio della foresta / l’antico detto degli Irochesi: / “Dolore a ogni barba grigia / quando i giovani indiani conducono la guerra”».
E nel «Requiem» per la battaglia di Shiloh si piangono, unitamente, uniti e disuniti: «la chiesa solitaria, di legno / che echeggiò a tanti un lamento d’addio / e una preghiera spontanea / di nemici morenti, lì mescolati / nemici al mattino, ma amici alla sera / indifferenti alla gloria e alla patria, / disingannati dalla verità di un proiettile …».
La guerra immonda, brutale, incomprensibile, nemica della vita, dissacrante gli ideali della nazione, fattrice del tradimento delle nobili origini degli Stati uniti, è un mare in tempesta che lascia relitti e annegati. Melville rasenta il metafisico, mescola pietas e pathos, linguaggio della marineria e linguaggio biblico, con punte più alte nella climax del richiamo al classico. Egli non dimentica tropi archetipali. La «tempesta» contemplata ne è certamente una prova: proviene da Lucrezio.
La guerra finì come finì. Egli si ritrovò di nuovo senza occupazione. E allora pensò di riflettere ancora sulle sue esperienze marinaresche e di riprendere il suo diario di viaggio del 1856-1857. Di questo rimane traccia qui solo in una visione corallina di Venezia: «Con panteistica forza di volontà / il piccolo operaio del Mar dei Coralli / strenuo nell’abisso azzurro, / erige la sua galleria meravigliosa / e la lunga arcata, / pareti screziate di tanti fregi / di ghirlande di marmo, / prova di quanto un verme può fare. // Operoso in un’onda meno profonda, / esperto in un’arte affine, / un operaio più audace mostrò il potere di Pan / quando sorse Venezia, in scogliere di palazzi».
A parte la sapienza delle immagini/metafore, la translitterazione di Venezia come erezione di un «verme», l’«operaio» (il verme del corallo), esecutore del volere del dio Pan, emigrato da un mare più esotico (l’ossessione di Melville resta il mare: irrinunciabile, meduseo, diabolico), si noti la bravura e l’eleganza di quel «in un’onda meno profonda», un’assonanza forse raggiunta d’istinto, sull’eco del solo suono.
E Pan ci invita a citare anche un’altra breve lirica dal sapore di salmastro classico, dedicata (chissà perché) a Siringa: «Come un albero di Natale illuminato, / o una grotta trafitta di cristalli, / come coralli bianchi in un mare verdacqueo, / o il cielo notturno affollato di stelle … / Così mi appari, Siringa, / tale potere d’esaltare, credimi, ha l’amore, mentre attendo ai cancelli del Paradiso, / l’incontro d’amore con Eva, che io aspetto».
Sono poesie un po’ misteriche, come, in modo conturbante, misterico è l’incontro con lo spettro di Shelley, naufrago mitizzato e autore dei Cenci che Melville conosceva bene. Ne sorge un confronto di cui leggiamo nella Visione di Shelley: «Camminando lungo mari mattutini / con il cuore gonfio di pena / (massacrato dai censori) / vidi la mia ombra desolata vagare. // Per un capriccio di un demone dispettoso / anch’io volli colpire chi era stato colpito: / gettai alla mia ombra, una pietra. // E allora, sulla terra inondata di sole, / vidi il fantasma mutare e assumere / la sembianza di Santo Stefano Incoronato / che destò in me rispetto per il mio dolore». Sono piccole soste, quest’ultima registra un auto-rispecchiamento nel naufragio, una delle liriche più ambigue nel percorso marino di Melville.
Le poesie di mare formano un gruppo corposo. Ce n’è una dedicata Al Capitano del Meteor che vale la pena riportare per dare un’idea di cos’era a quei tempi circumnavigare Capo Horn: «Solo sull’abisso più solo della terra / marinaio che vegli senza tregua / pensoso e leggero superi il Capo delle Tempeste / su onde mostruose che s’arricciano e s’infrangono. / Pensiamo a te, qui, dal margine /… / a te che radi il vello dell’oceano, / e al Meteor che rolla verso casa». Una rara meteora che non affonda. Il mare è la nostalgia e la tomba di Melville. Lo ricorda Hart Crane in una poesia intitolata At Melville’s Tomb, forse un richiamo a Le Tombe de Edgar Allan Poe di Mallarmé, la sua voce segnerebbe: «Un capitolo frantumato, un livido geroglifico, / Ferita portentosa in corridoi di conchiglie».
E questo è anche il senso del pezzo in prosa e poesia dedicato a John Marr, l’eterno errante sulla terra, esiliato per sempre dal mare per una ferita subìta in uno scontro con i pirati alle isole Keys. Finisce lontano dalla costa, nell’entroterra, al tempo dei primi pionieri. Non riesce ad adeguarsi, confonde mare e prateria. Ma resta lì, incapace di abbandonare la vista di quel falso oceano e rimembrando spettri di chimerici naviganti, suoi compagni di mare, «cacciatori di baleniere», solerti e strenui nell’essere «i primi sulla scia del leviatano». Ma quelle imprese avvenivano in acque inquiete, ben più impervie. Acque più mosse e più profonde.