Il teatro di Emma Dante è da sempre un luogo di fantasmi, di creature che stanno su un orlo fra la vita e la morte, o forse sarebbe meglio dire fra i vivi e i morti, confinate in uno spazio da cui non possono uscire ma da cui parlano a chi abbia voglia di ascoltare. A volte quell’orlo si sfrangia e ne escono i suoi personaggi. Marginali non in senso sociologico (immaginiamo che la sociologia poco importi all’artista palermitana) ma per il loro collocarsi su una soglia. In questo forse più vicino al pensiero di Genet che a quello di Artaud spesso richiamato. Lo conferma questo denso doloroso straziante ma anche vitalissimo Misericordia che ha debuttato con grandi applausi al Piccolo teatro di via Rovello (dove resterà in scena fino al 16 febbraio). Che non per caso richiama le Sorelle Macaluso di qualche stagione fa, e non solo per l’evidente impronta femminile che vi è impressa. Là le sette donne del titolo; qui solo tre, tenute insieme non da un legame di sangue ma da un vincolo che pure non sapremmo definire altrimenti che familiare.

ALL’INIZIO sono tutte sedute sul fondo, sono Italia Carroccio, Manuela Lo Sicco e Leonarda Saffi, tre presenze storiche della compagnia Sud Costa Occidentale. A sferruzzare una maglia rabbiosa. Ed è già parola quel rumore ritmato dei ferri in cui ciascuna sembra voler superare le altre. Dice della loro litigiosa convivenza, non meno della babele delle lingue in cui battibeccano, giacché il pugliese di una risponde alla lingua siciliana delle altre due. In mezzo a loro ci sta un ragazzetto ormai cresciuto ma rimasto all’età dei giochi, uno scimunitiello malamente coperto da una veste femminile raccattata nella spazzatura. Che altro non fa che muovere le braccia nell’aria, come a voler prendere il volo. Le tre donne sono infatti anche madri per procura, per così dire. Per assolvere a una promessa.

LA STRANA PAROLA di Misericordia, sia che derivi dalla sua intrecciata radice di cuore e sentimento della pietà o da una qualche confraternita, sembra fatta oggi per suscitare imbarazzo e disagio, se non proprio vergogna. Che è poi ciò a cui ancora serve il teatro. Un miserere, comunque. Pietà per la disarmonia disturbante di quei movimenti sgraziati e tuttavia anche per questo emotivamente coinvolgenti. Pietà per l’esposizione della carne che si fa indecente parata notturna di quelle puttane dalla doppia vita. Avanti e indietro senza sosta, in un’onda di risacca che sempre lascia sulla sabbia qualche rifiuto.

E POI C’È LA FIABA, cara a Emma Dante. Perché il ragazzino legnoso ha avuto un padre che faceva il falegname e veniva chiamato Geppetto per via del berretto di lana che portava in testa. Insomma siamo dalle parti di Collodi. E del resto a togliere ogni dubbio compare anche la musica di Fiorenzo Carpi. Ma la fiaba, lo abbiamo imparato da tempo, ha sempre un fondo nero, crudele e violento. Qui la violenza è quella che il padre sfogava sulla moglie, anche quando ancora era incinta e ancora di più se provava a ribellarsi, fino a togliere la vita a lei e la ragione a lui, al bambino che sarebbe nato settimino.

TEMA NON FACILE da maneggiare, quella violenza. E infatti Emma Dante ci si sottrae con un colpo d’ala. Fra il marcondirondello di un girotondo festoso e un esplodere di musica klezmer, il burattino riprende coscienza del suo corpo in una scatenata danza acrobatica (è un danzatore infatti Simone Zambelli) che lo veste per uscire dallo spazio reclusorio della scena. Mimando gli strumenti della banda che passa per la strada. La prima parola che pronuncerà, sarà quella di tutti i bambini.