Cantante, poeta, pittore e contadino: Piers Faccini si muove con una grazia e lentezza d’altri tempi in un mondo di conflitti, emergenze e crisi umanitarie, argomenti che gli stanno molto a cuore. Da anni il musicista italo-franco-inglese percorre a ritroso le sue radici, esplorando i suoni e i ritmi del mondo, dal Salento alla Cina, con le orecchie attente al presente. La sua musica coniuga il blues del Mississippi e i suoni dell’Africa Occidentale, abbracciando nel cammino il folk britannico e gli strumenti dell’Estremo Oriente.  Nel nuovo album I dreamed an island le canzoni assumono tinte ancora più mediterranee e perfino barocche, con testi anche in arabo e siciliano antico. Lo abbiamo raggiunto nella sua casa ai piedi del Parco Nazionale delle Cevenne, a un’ora da Montpellier, alla vigilia del tour italiano (sarà domani al Viper Theatre di Firenze, il 23 al Quirinetta di Roma, il 24 al Bronson Club di Ravenna, il 25 al Centro di Cultura di  Leguzzano e il 26 al Biko di Milano), per farci raccontare perché l’isola dei sogni è la Sicilia del XII secolo. «Come testimoniano i miei album, ho spesso tentato di coniugare stili musicali diversi. Per I dreamed an island ho navigato ancora di più verso le acque dell’Europa meridionale, avvicinandomi alle epoche in cui le culture e le tradizioni convergono e si intersecano. Da anni sono innamorato della musica del Mediterraneo e dei suoni dell’Africa settentrionale e occidentale. Quando ho iniziato a scrivere le canzoni del disco, mi sono ispirato alla Spagna meridionale: Cordova al tempo del califfato e la Toledo medievale. Poi però sono stato catturato dalla storia della Sicilia durante il regno normanno nel XII secolo ed è così che è nato l’album, una specie di mémoir genealogico. Come quelle di molti di noi in Europa, la mia genealogia e la mia storia si rispecchiano nella storia dell’isola e negli itinerari che i pellegrini, i viaggiatori e i migranti hanno percorso per secoli. Per questo motivo trovo il dibattito politico attuale sulla crisi dei migranti così disturbante».

Peccato che il tour non arrivi in Sicilia.

Amo la Sicilia, mi piacerebbe suonare a Palermo in un palazzo storico con il mio trio e con il violinista tunisino Jasser Haj Youssef, che suona nel disco. Sarebbe un modo perfetto per omaggiare I dreamed an island e l’interpretazione personale che propone della storia multiculturale della regione, che è unica al mondo. Le mie canzoni attingono a una Sicilia immaginaria, un’isola onirica. L’ispirazione è il passato ma lo scopo è parlare del presente, costruire ponti e riconnettere. Dimenticare chi siamo e da dove veniamo può essere pericoloso, apre la porta al fascismo.

Ti sei ritagliato una posizione interessante nel music business, quella dell’artigiano musicale che lavora su piccola scala, con cura e amore, attraverso la tua etichetta Beating Drum.

Al momento per me è l’unico modo di fare musica, con totale libertà e controllo artistico. L’etichetta è una specie di Slow Music, il nostro approccio è «piccolo è bello», prediligiamo la qualità alla quantità. Richiede molta fatica ma funziona! In questo modo riusciamo a mantenere un’etica di lavoro che condividiamo con chi ci sostiene acquistando i nostri prodotti.

Nel disco suonano tre bassisti: Chris Wood del trio funk-jazz Medesky Martin & Wood, il camerunense Hilaire Penda e Pat Donaldson che viene dal folk inglese. Una sintesi delle tue influenze musicali in un solo strumento.

Non ci avevo mai pensato in questi termini! Per me è un mix naturale. Lavoro con i musicisti come un regista con gli attori: so quali colori sono in grado di apportare alla musica e arrangio la tela di conseguenza. È un processo molto gratificante e sono fortunato ad avere molti buoni amici musicisti sparsi per il mondo.