Per chiudere Les enfants du désastre, la sua fortunata trilogia romanzesca sulla Francia tra le due guerre, Pierre Lemaitre non poteva scegliere momento storico più consono alla sua vena ironica e dissacrante che il drôle de guerre, espressione con cui i francesi indicano la fase iniziale del secondo conflitto mondiale, dall’attacco tedesco alla Polonia nel settembre 1939 fino all’invasione del Belgio e dei Paesi Bassi da parte delle truppe hitleriane nel maggio del 1940, quando dopo la dichiarazione di guerra alla Germania, l’esercito francese si mantenne inattivo, attendendo un’offensiva tedesca sulla linea Maginot. Lo specchio delle nostre miserie, ultimo romanzo della serie (traduzione Elena Cappellini, Mondadori, pp. 504, € 20,00) si apre, infatti, il 6 aprile del 1940, per poi seguire i suoi protagonisti fino al 13 giugno dello stesso anno, mostrando così non solo lo sconcerto di militari e civili nel periodo in cui si vaticinava una guerra d’usura, ma anche, dopo l’invasione del Belgio, il panico «di un paese in ginocchio, allo sbando», e l’esodo disperato di parigini e rifugiati verso Sud, «agghiacciante specchio delle nostre miserie e delle nostre sconfitte».

Sorpresa iniziale
Dopo un’apertura che rimanda a un certo Simenon (per esempio in La Casa dei Krull) e al cinema d’oltralpe degli anni Quaranta, il romanzo sorprende il lettore mettendolo di fronte a un fatto tanto tremendo quanto inatteso che colpisce la protagonista, Louise, insegnante ora trentenne, che avevamo incontrata quando era ancora una bambina, nel primo lavoro della Trilogia, Ci rivediamo lassù. Alla ricerca di una risposta per gli interrogativi sul passato della madre innescati dal violento episodio iniziale, Louise si ritroverà sulle strade gremite di sfollati, fino ad approdare, nello scioglimento finale, a un bizzarro campo per rifugiati amministrato da un prete alquanto sui generis.

Già acclamato autore di polar, Lemaitre inserisce sui fondali narrativi della guerra tanto stilemi del romanzo d’indagine quanto quegli elementi di mélo, avventura e feuilleton che costituivano le cifre dominanti dei precedenti episodi della Trilogia. La vicenda di Louise si intreccia così alle storie di diversi altri personaggi: Jules, un oste che sembra uscito dall’universo di Marcel Pagnol; Fernand, onesta guardia mobile, ladro per amore; Désiré, strabiliante truffatore mitomane; e due soldati, Raoul e Gabriel, uno disonesto e intrallazzone, l’altro mansueto e legalitario, convincenti antieroi nel ricordo della cui umanità ferita tornano le immagini di certi personaggi del cinéma de papa interpretati da Jean Gabin o Serge Reggiani, e di quelle loro versioni aggiornate che sono l’arraffone Milo e il timido tenente Nately di Comma 22, portati sullo schermo da Mike Nichols.

I riferimenti al cinema sono d’obbligo: qui come e più che negli altri romanzi della Trilogia, la vivacità propria del romanzo d’avventure e i misteri e le agnizioni del romanzo d’appendice sono esaltati attraverso una vasta gamma di tecniche cinematografiche: il montaggio, prima di tutto, su cui si regge l’intera struttura; la soggettiva, per quanto attiene il punto di vista dei diversi personaggi; il cambio di fuoco e il controcampo, principalmente nelle scene di interni; un sapiente uso tanto del primo piano, sia di persone sia di dettagli scenografici, quanto della panoramica e della carrellata, soprattutto nelle potenti sequenze dell’esodo.

Racconto per immagini quant’altri mai, Lo specchio delle nostre miserie si presta a venire analizzato con la tecnica del découpage, smontandone ogni singola inquadratura, per mostrare quanto sia originalmente abile l’autore nello sfruttare espedienti propri della narrativa popolare a lui particolarmente cara aggiornandoli alle strategie narrative delle serie televisive. Se il secondo romanzo della Trilogia, I colori dell’incendio, rendeva esplicito omaggio a Dumas, riprendendone, con ironia e affetto, temi e forme, nello Specchio delle nostre miserie, ai colpi di scena del feuilleton si sostituiscono i cliffhanger delle serie tv, mentre l’ossatura dell’intero lavoro, tra imprevisti e imprevedibili effetti-sorpresa, si snoda come la tipica «trama orizzontale» di una miniserie.

Per un verso, la sconfitta dell’intera nazione è descritta in maniera impietosa e la perdita d’innocenza di un intero popolo osservata con sguardo commosso; d’altro canto, l’occhio ironico di Lemaitre si ferma con insistenza sugli elementi fuori dalla norma, sul ridicolo di una situazione ben altrimenti drammatica, senza mai perdere di vista la responsabilità morale del racconto.

Consapevole dell’ «abitudine del governo di non perdonare ai più poveri un millesimo di quello che perdona ai più ricchi», Lemaitre inserisce i suoi protagonisti in episodi ai limiti del verosimile ma realmente accaduti in quel periodo, come la distruzione del patrimonio contante della Banca di Francia, bruciato perché non finisse in mani tedesche, e il trasferimento a piedi, da un penitenziario parigino a un campo di detenzione a sud, in condizioni di estremo disagio, di un migliaio di carcerati sorvegliati da qualche decina di guardie, con conseguente fuga di una buona metà dei prigionieri.

È nella descrizione dell’inadeguatezza di esercito e governanti e della conseguente, drammatica, confusione dell’esodo che Lemaitre dà il meglio di sé: tratta la tragicità dei suoi materiali narrativi con amara ironia, come si conviene all’epilogo di una «guerra farsa»: mentre i veicoli di tutti i tipi che ingorgano le strade, zeppi di ogni mercanzia, sfilando come «il più grande mercatino delle pulci della storia», l’inizio della débâcle, lo sfacelo che culminerà con l’occupazione tedesca di Parigi, viene sintetizzato in una frase, pronunciata al termine di una logorroica messa solenne a Nôtre Dame presenziata da alti membri del clero e del governo: «fu chiaro a tutti che Dio era appena stato nominato capo di Stato maggiore».

Censura come arte
Il corposo romanzo, egregiamente tradotto da Elena Cappellini, raggiunge le sue punte di umorismo nei capitoli di cui è protagonista l’avvocato, chirurgo, genio della propaganda bellica, censore e, da ultimo, sacerdote di nome Désiré, il quale enfatizza la componente surreale dell’intera situazione, sia elevando «la censura al rango delle Belle Arti» sia quando inventa assurde notizie sul conflitto in corso, forte dell’assunto per cui «in tempo di guerra, è più importante un’informazione rassicurante che un’informazione giusta». Nelle sue vesti di prete, poi, cita versetti biblici inesistenti e celebra messa in un grammelot spacciato per «latino delle origini», portando a compimento la sua più iperbolica e felice trasformazione: riannoda le fila del romanzo (e della Trilogia) e poi scompare, come sempre all’improvviso e senza lasciare traccia, o meglio, legittimando una serie di illazioni sul proprio destino che inducono chi si è appassionato alle sue metamorfosi a sperare di ritrovarlo, in altre, rocambolesche, incarnazioni, in un prossimo romanzo di Lemaitre.