Pierre Hadot non è soltanto autore di libri di filosofia, è egli stesso un modo di fare filosofia, anzi di essere filosofi, del tutto nuovo e, insieme, il più antico possibile: la sua ricerca ha riscoperto la filosofia greco-romana come un modo di vivere e il discorso che lo accompagna, lo sostiene, lo esamina, come indisgiungibile, e tuttavia anche parziale rispetto all’impegno che comportava quella scelta di vita. Da filologo e da storico ha svelato questa tessitura nascosta a una precomprensione soltanto teorica, sottolineando come le lacune, i salti argomentativi, le contraddizioni degli scritti antichi sono tali solo se si impone ai testi una ermeneutica anacronistica, che tenta di sistematizzarli là dove vanno invece compresi come passaggi di un più ampio intento formativo, finalizzato a renderci più consapevoli e responsabili.

La traduzione degli Studi di patristica e di storia dei concetti (a cura di Arnold I. Davidson e Laura Cremonesi, ETS, pp. 408, euro 36,00) ci conduce nella fucina di questa scoperta, che ha un potenziale rivoluzionario di rinascita per l’intera impresa filosofica. Gli scritti coprono un arco di tempo, dal 1964 al 1980 (come per i riassunti dei Corsi tenuti all’École Pratique des Hautes Études) nel quale si situa la prima formulazione – era l’anno accademico 1976-77 – del tema fondamentale: Filosofia ed esercizio spirituale, dove Hadot affronta i Pensieri di Marco Aurelio. Sarà questa la cellula originaria del testo-radice della sua opera matura: Esercizi spirituali e filosofia antica del 1981.
La pubblicazione del libro non era ancora avvenuta quando Foucault, che insegnava al Collège de France e aveva letto un articolo del 1977 sugli Esercizi spirituali, lo chiamò per proporgli la candidatura alla più importante istituzione culturale del paese. Del resto, una delle fonti decisive che spinsero Foucault, negli ultimi anni della sua vita, a occuparsi delle «pratiche di sé» dei greci e dei romani, fu proprio l’incontro con l’opera di Hadot, il quale tuttavia, nonostante la stima, la vicinanza e la gratitudine, non nascose le critiche alla filosofia di Foucault, che considerava una «estetica dell’esistenza» con un fondo di «dandismo», poco interessata alla trasformazione dell’Io.

Il corpo in campo
Hadot auspicava che il filosofo, ben diverso dallo specialista in teorie filosofiche, si situasse «nella prospettiva dell’universo, o dell’umanità nella sua totalità». Come racconta nel libro-intervista La filosofia come modo di vivere, le sue esperienze precoci del «sentimento oceanico», fin da quando aveva dodici anni e non era esperto in alcuna teoria, gli avevano aperto la strada a considerare la filosofia stessa come «trasformazione della percezione del mondo». Percezione dunque, qualcosa che ha a che fare con il corpo, la sensibilità, il modo di vedere gli altri: era questa, evidentemente, la vocazione profonda che portò Hadot in seminario; e anche se l’influenza della madre fu decisiva nella scelta di farsi prete, di certo il cristianesimo era per lui più un modo di vivere che un sistema di pensiero.
Presto, tuttavia, Hadot si disamorò delle chiusure dottrinali della Chiesa – seguiva con interesse Teilhard de Chardin, Berdjaev, Gilson, Maritain, Puech, l’ecumenismo e tutto ciò che sentiva come apertura a un libero confronto – delle ambiguità morali del clero e della volontà dogmatica del papato (il nuovo dogma dell’Assunzione di Maria fu proclamato nel 1950). Nel 1952 lasciò la Chiesa e avviò, da allora, la sua ricerca di una spiritualità filosofica, depurata da esteriorità devozionali e da assunti indiscutibili.

Il libro appena edito da ETS consente di seguire il percorso di studi che porta dai lavori su Mario Vittorino, Plotino e Porfirio fino alla tripartizione stoica di fisica, logica ed etica, ricavabile come struttura concettuale da Epitteto e da Marco Aurelio. Più di tutto è importante il metodo che queste ricerche gradatamente vengono a formulare. L’immagine-guida è quella della anamorfosi: noi vediamo aspetti particolari, ma essi assumono tutt’altro senso se riusciamo a comprendere, a vedere l’immagine complessiva alla quale si riferiscono. Solo allora, ogni singolo dettaglio si rivelerà come aspetto di un insieme capace di risignificare il tutto. Senza questa mediazione il testo antico rimane indisponibile. Le apparenti discontinuità, e persino i rischi di contraddizione, appaiono allora come variazioni di una struttura concettuale fondativa: nel caso degli stoici, per esempio, tre topoi decisivi vengono continuamente approfonditi, rivelandosi come fine stesso del testo: il momento e la dottrina della fisica, capace di comprendere e di valutare i desideri nella loro possibilità, il momento e la dottrina della logica, intesa a indirizzare il nostro assenso e a indicarne i limiti o le illusioni, l’etica come sforzo di indirizzare i nostri comportamenti.

Sintesi di diverse tradizioni
Questa capacità di rimanere aderente al dettato del pensiero, e insieme di indicarne l’ordito significativo per l’uso dell’esercizio che si propone di trasformare la postura esistenziale, mette in grado Hadot di confrontarsi anche con i grandi testi della patristica cristiana, additandone con nettezza i legami essenziali con la filosofia greca, fino a dissolvere, con sicurezza magistrale, le semplificazioni in uso per molte filosofie, moderne e contemporanee: fra tutte, l’opposizione della ciclicità del divenire e della storia alla concezione finalistica attribuita alla tradizione cristiana. Ma, al tempo stesso, Hadot, che riconduce gran parte delle proposte degli esercizi spirituali cristiani alla loro matrice greca, è ben lontano dal ridurre la patristica cristiana alle influenze filosofiche che ha fatto proprie, anzi sottolinea quali nuovi problemi teorici hanno dovuto affrontare i «padri della chiesa» per cercare una sintesi innovatrice tra le fonti ebraiche originarie e le strutture dell’argomentazione proprie della tradizione greco-romana.