Nelle suggestive sale del castello di Barletta, Pierre Coulibeuf controlla ancora una volta che l’allestimento di The Warriors of Beauty, la sua installazione video su due schermi, accompagnata da alcune stampe fotografiche, sia impeccabile. La mostra di cui fa parte, (Di)sfide contemporanee,organizzata da Cineclub Canudo/Avvistamenti, si è inaugurata due giorni fa e resterà visibile per oltre un mese. E’ la prima volta che l’artista-cineasta francese viene in Puglia, accompagnato da Chantal Delanoe, produttrice di tutti i suoi film e sua agente per le mostre d’arte. In Italia, purtroppo, Coulibeuf non è conosciuto quanto dovrebbe, nonostante dal 1987 abbia realizzato circa una ventina tra corti e mediometraggi, sette lungometraggi e svariate mostre e installazioni, ospitate nei musei di tutto il mondo.

I film di Coulibeuf – girati rigorosamente in pellicola – hanno una loro costante, sono quasi tutti realizzati a partire dall’immaginario di altri artisti: da Michel Butor a Marina Abramovic, da Jean-Luc Moulène a Michelangelo Pistoletto, da Meg Stuart a Jan Fabre, oppure da singole opere (una scultura-architettura di Bustamante in Lost Paradise, del 2002) o, ancora, ambientati in spazi particolari (un edificio di Rudy Ricciotti in Pavillon noir del 2006, un’architettura di Alvaro Siza per la fondazione Iberê Camargo in Dédale, del 2009).

«Il mio lavoro», spiega Coulibeuf, «mira alla trasversalità, non sono né opere documentaristiche né sperimentali, appartengono a un genere nuovo, che prende in prestito da tutti questi generi. Il mio progetto di partenza non era di inscrivermi in un genere particolare, ma produrre una forma cinematografica che conducesse a una nuova realtà. E’ questo che mi ossessiona. Il sistema cinematografico cerca sempre di classificarmi, ma questo non è un problema mio ma della critica…». Non sono documentari, quindi, anche se documentano in modo indiretto delle attitudini estetiche, non sono film sperimentali, pur non essendo basati su una narrazione lineare, ma non sono neanche film a soggetto, anche se ne hanno spesso l’impostazione. I suoi film sono piuttosto simulacri, vale a dire che essi materializzano, in una fiction, la relazione con un’opera o con un universo mentale. Coulibeuf impiega l’espressione fiction expérimentale per designare il suo cinema, la cui caratteristica principale resta la grande capacità di confrontarsi con i diversi campi dell’espressione artistica, costruendo un’opera autonoma e individuale, che apre una stimolante e articolata riflessione sulle possibilità e modalità offerte dalle immagini in movimento di tradurre un linguaggio estetico in un altro e, quindi, di re-interpretare le opere altrui, mediante una personalissima messa in scena, all’insegna del rigore compositivo-geometrico, e della dilatazione temporale.

Lo stesso Coulibeuf, a partire dal 2005, ha trasformato alcuni suoi film in installazioni video, presentandole in numerose mostre personali e applicando così ulteriormente alle proprie opere la sua idea di “passaggio” da una forma espressiva all’altra, da un dispositivo all’altro (nel caso specifico cinema/video). Nei suo universo cinematografico gli artisti si trasformano in attori, spesso in “doppi” di se stessi. Pistoletto ne L’Homme Noir (1993-98), Marina Abramovic in Balkan Baroque (1999), o Jan Fabre in Le Guerriers de la beauté (2002) e, più di recente, in Doctor Fabre Will Cure You(2012). In questo suo recente lungometraggio, forse tra le sue cose migliori in assoluto, riproposto due settimane fa al Cineporto di Bari, l’immaginario di Fabre non è mai disgiunto dal confronto continuo e necessario tra l’artista belga e la storia dell’arte, a cominciare da quella fiamminga, che inevitabilmente ha ispirato il suo lavoro. Un modello iconografico di riferimento dell’intera narrazione potrebbe essere la famosa incisione di Dürer Il cavaliere, la morte e il diavolo, realizzata nel 1514. All’inizio del film lo stesso artista esplode dei colpi contro la propria tomba, ma l’intero Doctor Fabre… è punteggiato da alcune frasi tratte dal suo Journal de nuit letto da un’enigmatica figura femminile (Ivana Jozic), che assume di volta in volta diversi ruoli: in realtà sono tutte trasfigurazioni della Morte. Non meno importante è la figura del Cavaliere con armatura e vessillo che compare diverse volte. Infine, c’è il Diavolo, che ha le fattezze dello stesso Fabre mentre si cosparge di schiuma da barba di fronte a uno specchio, modellandosi i capelli a forma di corna. E se il denaro è notoriamente lo sterco del diavolo, ecco Fabre vestirsi di banconote e prendere simbolicamente fuoco, una delle tante autonegazioni e catarsi di cui è disseminato il film.

E tratta invece da Les Guerriers de la beauté e ha come punto di partenza di nuovo Fabre, ma stavolta il suo teatro in particolare, l’installazione The Warrios of Beauty, rimodulata appositamente per Barletta. Qui la galleria di personaggi, decontestualizzati dagli spettacoli di Fabre, riacquistano nuovamente vita, incrociandosi, sfiorandosi e ripetendo all’infinito le loro ossessive azioni nelle sale di una fortezza di Anversa. Le immagini del film, proiettate sulla nuda parete pietrosa del castello, con un effetto quasi tridimensionale, sembrano perfettamente prolungare gli spazi dell’antica fortezza fiamminga in quelli del castello di Federico II, creando un’ideale continuità/contiguità spazio-temporale.

 

Da cosa nasce la tua esigenza di lavorare a partire dall’immaginario di un altro artista?

Non è un’esigenza, ma si tratta di circostanze. E’ un caso. Sono approdato al cinema producendo alcuni documentari sull’arte e mi sono reso conto abbastanza presto di voler fare io stesso dei film, ma allontanandomi dal modello del documentario. Ciò che mi interessava era la fiction, una scrittura cinematografica che fosse vicina alla scrittura letteraria. La mia formazione, infatti, è letteraria. Ho fatto un dottorato in Lettere, quindi ero affascinato dalla forma nel senso “letterario” del termine, ad autori del nouveau roman come Robbe-Grillet…

O Michel Butor, sul quale è incentrato il tuo Michel Butor Mobile. O Pierre Klossowski, cui hai dedicato uno dei primi tuoi cortometraggi, Klossowski peintre exorciste.

Ecco, soprattutto Klossowski è stato importante durante i miei studi all’università, poiché mi ha fornito i concetti che hanno orientato tutto il mio lavoro di regista e poi di artista; in particolare il suo concetto di “simulacro”. I miei riferimenti sono dunque extra-cinematografici, penso anche a filosofi post-nietzschiani come Gilles Deleuze o Michel Foucault. L’opera di Deleuze, Differenza e ripetizione, per tornare al concetto di simulacro, è fondamentale per comprendere il mio cinema. Robbe-Grillet è un altro modello centrale, parlo sia dello scrittore che del regista, anche se la produzione cinematografica di Robbe-Grillet è meno conosciuta.

Approfondiamo meglio il concetto di “simulacro” da cui prende le mosse la tua estetica.

Potrei anche usare il concetto di “parodia” per precisare il rapporto che instauro tra il cinema e le altre arti. Il mio lavoro, effettivamente, si sviluppa a partire da altre forme d’arte, ma non è un progetto di rappresentazione nel senso di pura mimesi. Alla base dell’operazione che compio vi sono i termini di “distanza”, “cambiamento di prospettiva o punto di vista”, “spostamento”. Ripeto non si tratta di un approccio rappresentativo, bensì di una ripetizione spostata che produce una distanza ricondotta all’intero processo creativo. Per riprende il titolo di un libro-intervista che ho realizzato insieme a Robert Fleck, l’idea è quella dello scarto che sussiste tra le meme et l’autre. Nel momento in cui avviene lo scambio tra me e artisti come Pistoletto o Fabre, essi non sono più loro, sono già un’altra cosa. Nel mio cinema avviene un passaggio da un universo all’altro, da un’opera all’altra. Non si tratta di copiare qualcosa di pre-esistente, ma di produrre qualcosa di nuovo utilizzando l’opera dell’altro come un pretesto. Ogni volta c’è sempre un processo creativo di interpretazione.

Tuttavia a volte si può creare qualche ambiguità, qualche “malinteso intellettuale” tra te e l’artista, nel senso che quest’ultimo si trova “espropriato” della sua opera che tu metti in scena cinematograficamente. Naturalmente immagino vi sia una contrattazione precisa all’inizio, un patto.

Io stabilisco le regole fin dall’inizio e, per non avere problemi, vengono contrattualizzate. Non c’è inganno da parte mia. Alcuni artisti, infatti, si sono rifiutati di girare un film con me perché sapevano che io avrei prodotto un altro universo, parallelo se vuoi, un “doppio”, simile ma differente. C’è un gioco di specchi e di riflessi. L’atto performativo diventa azione cinematografica perché obbedisce a tutta una serie di vincoli e il performer si trasforma in un attore. Anche per questo il mio cinema è l’esatto contrario del documentario, perché non è il cinema che si mette al servizio di un’altra disciplina, ma è quest’ultima che si deve adattare al medium filmico.

Eppure hai avuto dei problemi anche di tipo legale. E’ il caso di Marina Abramovic che, dopo aver girato per te Balkan Baroque ed aver accettato quindi di donarsi al tuo sguardo, rifacendo le sue vecchie performance, ti ha fatto causa…

Artisti come Fabre e la Abramovic non fanno uno spettacolo, ma realizzano performance che, come sappiamo, possono essere fatte una sola volta. Nel momento in cui si attua una sua ri-messa in scena, un rifacimento, una riproposizione, chiamiamola come vuoi, è ovvio che la performance diviene recitazione. L’incomprensione con la Abramovic è tutta qui: lei sostiene che nel film si vedono delle performance, mentre io ritengo che siano “simulacri”. C’è un termine inglese per definire la mia arte: appropriation art. Sono tanti gli artisti contemporanei che la praticano, pensiamo a Douglas Gordon quando prende Hitchcock come punto di partenza. Siamo sempre di fronte a un’operazione di differenza e ripetizione. Ovvio che se non c’è trasformazione c’è plagio. E’ al critico che spetta di valutare la qualità o la pertinenza di tale processo creativo.

Aggiungerei una cosa, tuttavia, che l’appropriation art spesso consiste nel rimontare le immagini originali, insomma è un’operazione di found-footage, nel tuo caso le immagini ti appartengono interamente. Puoi parlarci di come lavori con gli artisti?

Con ogni artista le modalità cambiano, le regole vanno sempre definite di volta in volta. Naturalmente spero sempre che l’artista trovi soddisfazione, dal punto di vista suo e del proprio lavoro, nel film che io vado a creare. Nondimeno la cosa più importante è che avvenga una trasformazione nel senso di passaggio da una forma all’altra, che ci sia una creazione nuova. La relazione con l’altro artista può avvenire in diversi modi: attraverso una scrittura a quattro mani (come ne Le Démon du passage), oppure trasformando l’artista in attore del suo proprio universo mentale (Pistoletto ne L’Homme noir o della Abramovic in Balkan Baroque), oppure lasciando che l’artista sviluppi un suo lavoro originale all’interno del mio processo di creazione filmica (è il caso di Meg Stuart in Somewhere in between) o, ancora, facendo si che l’opera di un altro artista ispiri il film (il caso dello scrittore Blanchot e della fotografa Suzanne Lafont per Amour Neutre e il caso del pittore brasiliano Camargo e l’architetto Siza in Dédale).

Nel 1995 hai girato con Jean-Luc Moulène un film chiave della tua estetica, Le Démon du passage, titolo che vale anche come definizione del tuo cinema, fondato sull’ossessione del passaggio da una forma all’altra…

Ho lasciato che Moulène scrivesse alcune scene del film, ma la mia preoccupazione non era quella di fare un “film d’artista” ma un film che rispondesse a preoccupazioni di scrittura cinematografica, così, a mia volta, sono intervenuto negli interstizi aggiungendo allo script delle scene per produrre una forma che appartenesse più al cinema che alle arti plastiche. Non si trattava di produrre una serie di “fotografie animate” come sarebbe stato naturale trattandosi di Moulène, bensì di creare una struttura che inglobasse le immagini fisse. Le sue immagini insomma c’erano, ma dissimulate. La seconda fase è consistita invece nel far selezionare a Jean-Luc, in fase di montaggio, sette fotogrammi che rappresentassero bene il suo immaginario, realizzando altrettanti manifesti. Immagini dunque che corrispondessero sia al codice cinematografico (le affiches dei film), sia a quello delle arti visive. Nel 1995 in Bretagna abbiamo presentato in spazi contigui sia il film sia le sette immagini tratte da esso. La mostra testimoniava della tensione particolare che si creava tra questi due elementi. Nel film, ma anche nei manifesti, c’erano entrambe le cose: il cinema e la fotografia.

Con Jan Fabre hai girato addirittura due film: Les Guerriers de la beauté nel 2002 e, dieci anni dopo, Doctor Fabre Will Cure You. Non avevi paura, anche più che con l’Abramovic, che – utilizzando lui stesso immagini in movimento – si sarebbe creato un cortocircuito tra il tuo immaginario filmico e il suo?

No, perché il medium principale di Fabre non è l’immagine in movimento, al contrario della Abramovic che lo utilizza da sempre sotto forma di la videoperformance nelle sue esposizioni. Mi sono avvicinato all’arte di Fabre perché è pluridisciplinare. C’è tensione e differenza tra un’opera (quella di Fabre) e l’altra (la mia) che traduce bene l’ambiguità del reale. E, ciò che più mi interessa è proprio di comunicare, attraverso il simulacro, tale ambiguità. I due film che ho realizzato con Fabre, sono opere “doppie”, metamorfizzate nella mia opera. Il lavoro che Fabre produce nel corso del processo filmico non ha autonomia poiché è trasformata in un’opera nuova, cinematografica.

La questione è divenuta più complessa quando, ormai quasi dieci anni fa, sei penetrato nel campo degli artisti, ovvero hai iniziato a fare installazioni video tratte dai tuoi film e mostre in tutto il mondo. Insomma dal mondo del cinema sei passato al mondo delle arti visive o plastiche. Cosa è cambiato nel tuo immaginario?

Nulla. Ciò che mi interessa è di prolungare spazialmente il più possibile il processo di trasformazione, espandere la metamorfosi ad altri campi artistici, a partire da una visione iniziale dotata di grande mobilità. La mia opera completa la trasformazione delle realtà.

Molti tuoi film qualche anno fa sarebbero stati definiti opere di “videodanza”. Al di là delle classificazioni, in diversi tuoi lavori c’è l’interesse verso la forma coreografica e la performance. Ti sei confrontato con Meg Stuart, Angelin Preljocaj, Vania Rovisco, ecc.

Prima del 2002, anno in cui ho realizzato Les Guerriers de la beauté con Jan Fabre, non sapevo nulla di danza e non avevo interesse verso questa disciplina. Mi affascinava non tanto la danza quanto la relazione tra corpi e luoghi, più che tra corpi e spazio, poiché lo spazio è qualcosa di troppo indeterminato. La danza mi interessa in termini di postura, di attitudini, come per esempio nel film che ho fatto con Meg Stuart, Somewhere in between, dove la coreografia è fortemente intrecciata alla realtà quotidiana. Allo stesso modo in Pavillon noir, girato nell’edificio creato da Rudy Ricciotti che ospita la compagnia di danza della Preljocaj, mi piaceva l’idea di far interpretare il ruolo di impiegati ai danzatori, rilevando ancora una volta quell’ambiguità del reale che mi affascina. In questo caso l’ambiguità si crea tra l’attitudine corporea e il loro lavoro quotidiano: non sappiamo, a un certo punto del film, se si tratta di danzatori che “giocano” il ruolo di impiegati o di impiegati che mimano i danzatori. L’identità è sempre aperta, indeterminata. Io amo questa identità multipla, anche nel film con la Stuart vi sono svariati “doppi”, diverse identità dei personaggi durante tutto il film. Una delle caratteristiche del mio lavoro è di mettere in movimento l’identità, di moltiplicarla.

I tuoi film hanno una struttura visiva molto accurata, quando lavori, a parte il copione scritto, hai chiaro in mente come costruire il film inquadratura per inquadratura, conoscendo bene le location, oppure ti affidi anche molto all’improvvisazione?

La realizzazione del film è basata su un’idea formale precisa. Io conosco esattamente il tipo di inquadrature di cui ho bisogno per costruire il film che ho in testa. L’idea di una struttura è sempre presente in partenza ed è in funzione di questa struttura che posso, nel momento delle riprese, concepire nuove scene. E’ così che improvviso. Quando parlo di struttura voglio dire che le principali scene del film sono scritte e definite prima della lavorazione.

Non usi mai la camera a mano e limiti parecchio i movimenti della macchina, da cosa deriva il rigore e l’essenzialità delle tue inquadrature?

Non lo so. In ogni caso la mia preoccupazione riguarda sempre la composizione delle inquadrature. I movimenti di macchina, carrellate e panoramiche, non sono in contraddizione con essa. A dimostrazione di questo un film come L’Homme noir, ricco di travelling, possiede inquadrature composte con grande precisione. La mobilità della camera era alla base del progetto, poiché avevo deciso che l’elemento dello specchio dovesse essere utilizzato come motore della narrazione.

Ti è mai successo che l’artista-interprete che avevi di fronte alla macchina da presa abbia voluto interferire nella tua messa in scena? Oppure sei tu stesso che, in alcune circostanze, concordi con l’artista alcune scelte stilistiche?

No. Le decisioni artistiche concernono il film e devono sempre essere mie, non sono il risultato di alcun compromesso. Non avrei mai potuto fare i miei film senza questa libertà. Una libertà che ho conquistato, faticosamente, ogni volta.

Tu hai sempre girato i tuoi film in pellicola, soprattutto 35mm. E’ stata una scelta ben precisa, anche concettuale e non solo dettata dalla risoluzione tecnica. In futuro come intendi regolarti?  

La scelta del 35mm è dettata da una volontà estetica consolidata. E’ inerente al mio progetto artistico e continuerò a lavorare con la pellicola 35mm, oppure 16mm, fino a quando sarà possibile. Insieme a qualche altro cineasta e artista, da questo punto di vista, appartengo a un gruppo di Resistenza, considerando che il digitale, secondo me, ha delle tendenze totalitarie. La scelta della pellicola deriva da un progetto che è al tempo stesso estetico, politico e generatore di intensità.

Qual è un artista con e su cui ti piacerebbe lavorare o una forma espressiva con la quale non ti sei ancora confrontato su cui vorresti costruire un film?

L’erotismo. Penso in particolare alla sua espressione nel cinema giapponese moderno.