«Dove hanno fatto il deserto, quello chiamano pace». Con queste parole si concludeva il discorso di Calgaco, re dei Caledoni, nel De Agricola di Tacito, dove il grande storico romano, raccontando la vita del suocero Giulio Agricola governatore della Britannia, esprimeva una delle più feroci critiche di sempre a quell’imperialismo e quella corruzione dei romani che li aveva condotti ad assoggettare il mondo, chiamando ordine e civiltà ciò che era dominio e sottomissione. Nel mondo moderno e contemporaneo qual è il nostro «deserto chiamato pace»? Attraverso un’inchiesta corale (sia per la pluralità dei soggetti presi in considerazione che per il grande numero di studiosi coinvolti) sulla scia ma anche al di là dei grandi romanzieri e intellettuali impegnati del XIX secolo, una risposta possibile l’ha offerta Pierre Bourdieu con il suo ormai classico La miseria del mondo; frutto di tre anni di lavoro, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1993 e da allora al centro di vivaci discussioni e persino ispirazione per innumerevoli spettacoli teatrali, esce oggi in Italia per i tipi di Mimesis, in una bella edizione tradotta e curata da Antonello Petrillo e Ciro Tarantino.

La miseria al centro del libro di Pierre Bourdieu non è la povertà assoluta (una condizione materiale documentabile e certificabile), bensì la «miseria di posizione», cioè la miseria che nasce e si riproduce in uno spazio fisico e sociale degradato, precario, instabile, cui si appartiene e in cui si è coinvolti senza possibilità reale di uscirne: insomma, la miseria contemporanea è innanzitutto un sistema di relazioni sociali che influenza negativamente il modo in cui le persone pensano se stesse e gli altri, e le chance di vita che hanno a disposizione. In questo senso, l’apparentemente improbabile parallelismo tra Tacito e il sociologo francese va al di là della suggestione retorica: la miseria che emerge dalle analisi di Bourdieu e collaboratori è frutto di una desertificazione sociale, vale a dire dell’impoverimento materiale e della contemporanea pauperizzazione sociale.

Un universo fantasmatico

Il declino di un vecchio mondo (quello della società del benessere) e il sorgere di un nuovo universo, più spietato, meno civico e solidale. All’interno di questo ordine che possiamo chiamare neo-liberista lo Stato si è ritirato e ha perso (per scelta politica) autorevolezza e capacità d’intervento così come sono entrati in crisi e si sono frantumate le istituzioni sociali intermedie che assicuravano sostegno agli individui (la famiglia) ma anche mediazione dei conflitti (le associazioni), sintesi e organizzazione delle diversità culturali e delle aspirazioni individuali (i partiti, i sindacati). Bourdieu e la sua equipe analizzano le manifestazioni di questa miseria contemporanea (che è anche diffusione della violenza e dell’intolleranza) mettendola in collegamento con le sue radici sociali e politiche occulte (perché rimosse dal dibattito pubblico e politico) intervistando una vasta e variegata platea di soggetti: dall’anziano che vive nella banlieue al lavoratore immigrato; dalla giovane disoccupata all’assistente sociale e al piccolo commerciante. Tutte queste figure, i cui vissuti e percorsi sono ricostruiti attraverso un approccio che unisce sempre all’avvincente narrazione d’inchiesta una serrata riflessione teorica in grado di restituire i collegamenti tra le biografie individuali e le più vaste dinamiche sociali e economiche, sono accomunate dalla condivisione di un comune orizzonte e spazio sociale: quello dei ceti popolari, depotenziati nella propria dignità, nel proprio rispetto di sé e nella propria autonomia. Questo immiserimento nasce dalla precarizzazione del mercato del lavoro, dalla contrazione del welfare state, dall’esclusione sociale, dai meccanismi classisti della scuola e dall’abbandono delle periferie da parte delle istituzioni pubbliche.

In questo caleidoscopio sociale «dal basso», nel quale biografia individuale e trasformazioni collettive si intrecciano costantemente, ritroviamo da una parte i «vinti» e dall’altra quelle figure professionali che rappresentano ciò che resta della rete di protezione sociale statuale, che vanno a fondo assieme ai primi. Vi è il piccolo commerciante che non ce la fa più a reggere la concorrenza della grande distribuzione e che vive, ormai anziano, le sue difficoltà reagendo in modo rabbioso, facendo appello ad un nuovo nazionalismo che lo possa proteggere dalle conseguenze della globalizzazione. Un’ampia galleria di giovani, dall’operaio precario che guarda come inutile residuo del passato il sindacato pur vivendo una situazione di forte precarietà lavorativa, al giovane studente marginalizzato e taciturno che poi decide di lasciare tutto per andare ad arruolarsi come volontario nelle milizie croate. E i continui conflitti, ormai diffusi ovunque nel tessuto della vita quotidiana delle banlieue, tra francesi di nascita e francesi naturalizzati (cioè migranti), praticamente per ogni cosa: dagli odori provenienti dalle cucine, ai rumori legati alle visite di amici, sino ai giochi nei cortili. Indicatore di una lotta per il controllo del territorio (ormai in fasce di declassamento) tra gruppi che condividono poco, ma anche risultato del deciso indebolimento dell’autorità nelle famiglie naturalizzate, che conduce i giovani ad assumere comportamenti sempre più fuori controllo.

La prateria della politica

Su questo variegato fronte di guerra – nel quale sindacati e partiti di sinistra sono orami assenti anche come terreno di incontro e di mediazione tra vari tipi di ceti popolari – ritroviamo anche gli assistenti sociali e i giudici minorili, che non vivono semplicemente le pur tante difficoltà connaturate al loro lavoro ma la sempre più ampia sensazione di essere svalutati socialmente e professionalmente, proprio da quello Stato per cui lavorano ma che non vede più di buon occhio la spesa sociale. La miseria del mondo di Bourdieu fa emergere così tre aspetti molto interessanti: la differenziazione e frammentazione soprattutto per linee etniche e generazionali dei ceti popolari contemporanei; l’abbandono sistematico dei più deboli da parte della politica e delle classi dirigenti, che apre la strada ad una visione sempre più darwiniana della vita sociale; l’apertura di una prateria politica (che all’inizio degli anni Novanta era ancora ampiamente sottovalutata) sia per il nazionalismo populista che per la radicalizzazione islamista, in conseguenza del dissolvimento della sinistra e del suo radicamento popolare.

La miseria è stato uno dei temi dominanti nella vita delle masse popolari nel corso della storia fino ad emergere come un attributo fondamentale di quella questione sociale (e non più semplicemente religiosa) che, a partire dall’ascesa della società industriale, ha dominato la scena politica e il dibattito pubblico della modernità. La miseria è una categoria e uno stato diverso dalla «semplice» povertà: la miseria è penuria di risorse ma anche meschinità morale, condizione materiale deprivata ma anche sofferenza e bassezza spirituale, in termini sociologici quella fine della coesione sociale retta da valori non solo condivisi ma anche capaci di dare una meta e un orizzonte di miglioramento alla vita individuale e collettiva. Così, la miseria non è mai il contrario dell’opulenza ma della «vita buona» e della possibilità di realizzarla in qualche luogo. Come tale la possiamo ritrovare tanto nei ghetti e nelle favelas quanto nei grattaceli scintillanti di Manhattan, ogniqualvolta la deprivazione materiale si accompagna ad un eterno presente senza speranze di riscatto morale, civile e materiale.

L’utopia del socialismo – e poi la stessa ideologia dello Stato sociale, compreso quello di marca liberaldemocratica – è consistita nel ritenere che la società industriale fosse la dimensione all’interno della quale offrire una soluzione a questo problema, una volta eliminato o messo sotto controllo il capitalismo; e, per questa via, in questo mondo, riscattare dalla miseria l’umanità intera, tanto il proletariato quanto gli stessi borghesi. La miseria contemporanea è negazione di questa utopia ed estraneazione della sinistra dai ceti popolari; ed è stata occultata, anche durante e nonostante la grande crisi del 2007. Rileggere l’attualissima ricerca di Pierre Bourdieu ce ne fa capire il perché: non si tratta solo di mera convenienza politica.

Eclisse della sinistra

Ci troviamo di fronte alla scomparsa dal dibattito pubblico della società stessa e dei ceti popolari ora che, dopo la fine del fordismo e della società del benessere, si fanno più differenziati, estesi e precari: fine della società perché la miseria quando è raccontata e messa a tema lo è sempre come questione individuale, disturbo psicosomatico, male esistenziale senza radici sociali, che invece persistono e sono resistentissime, radicate nei meccanismi di funzionamento economico e nei poteri sociali. Abbandono dei ceti popolari perché questi non sono più coinvolti in un progetto di riscatto e progresso sociale ma lasciati in balia dei meccanismi più selvaggi del mercato e di una narrazione mediatica e politica che ne esalta le reazioni di pancia, funzionali al mantenimento di quell’ordine sociale che li priva, contemporaneamente, della prospettiva della «vita buona» (populismo e radicalismo a sfondo religioso). Si pensi a questo proposito al racconto pietistico che in Italia si fa a volte dei disoccupati o dei pensionati rovinati da videopoker o videolottery: in tutti questi casi si cede alla commiserazione, si parla di psicopatologia ma si occulta il fatto che quelle miserie sono funzionali a precisi interessi economici (anche di stampo mafioso), possibili e promossi dalle leggi dello Stato. La miseria del mondo di Bourdieu mostra la possibilità di rendere reversibile (perché prodotto degli uomini) ciò che troppo spesso è scambiato per un destino senza scampo: la miseria dei tempi presenti in tutte le sue complesse ed articolate forme.