«Non si scrive ciò che si vuole. Maxime (Du Camp)scrive ciò che vuole, più o meno. Ma quello non è scrivere». Ci sono vari modi per leggere la frase con cui Gustave Flaubert prende le distanze da un amico scrittore – Du Camp, appunto – esponente di una letteratura sociale, progressista, volontaristica e apparentemente all’avanguardia, ma in realtà inconsciamente sottomessa ai condizionamenti del proprio tempo e spazio sociale. In prima battuta, Flaubert vuol forse dire che la vera letteratura ha ben poco di soggettivo – che è in misteriosa ma profonda risonanza con le forze oscure della società e della psiche, da cui il grande scrittore deve essere capace di «farsi parlare», oltre ogni progetto di organizzazione stilistica. Ma vuol dire anche che proprio per questo (e contro l’immagine romantica dell’artista genio creatore) il vero scrittore è solo in parte responsabile del proprio lavoro; che un ruolo importante, nell’elaborazione dell’opera, spetta alle influenze ambientali che fanno da sfondo al progetto creativo.

Se le cose stanno così, non è certo un caso che Pierre Bourdieu scelga la frase in questione per aprire il suo splendido Le regole dell’arte, apparso in Francia nel 1992, tradotto in italiano nel 2005 da Anna Boschetti e Emanuele Bottaro per il Saggiatore, che oggi lo riporta in libreria (pp. 509, € 24,00). Non è un caso, perché l’obiettivo di Bourdieu è sempre stato l’analisi disincantata delle «disposizioni incorporate», perlopiù inconsapevolmente, degli attori sociali. Alla scoperta di quello che con Pascal chiamava «l’automa in noi», Bourdieu ha studiato da prospettive diverse l’azione modellante che esercita, in particolare sulla cultura e sul gusto, il puro e semplice ordine delle cose; fino a verificare l’intuizione marxiana per cui anche «i dominanti sono dominati nella loro dominazione». La sociologia di Bourdieu assume quindi un ruolo prezioso di scavo nel rimosso storico, di accertamento di tutto ciò che gli individui e i gruppi non vogliono sapere. Esplorazione demistificante che avvicina il suo lavoro al lavoro stesso del romanzo; specialmente in queste Regole dell’arte.

Dopo anni passati a studiare spietatamente le modalità della riproduzione sociale nei sistemi dell’istruzione francese, nelle Regole dell’arte Bourdieu si decide infatti ad affrontare direttamente l’analisi della cultura letteraria: passaggio probabilmente obbligato se si pensa alla sua continua attenzione al simbolico, ma passaggio al tempo stesso insidioso, dal momento che l’arte moderna si presenta come «economia antieconomica», vero e proprio mondo alla rovescia che si contrappone su tutti i piani alle normali categorie delle scienze sociali.

Il capitale simbolico
La letteratura in particolare si rivela ideale per chiarire il significato di «campo» come lo intende Bourdieu: se la divisione del lavoro capitalista spinge le diverse attività umane a organizzarsi in ambiti autonomi, fedeli a regole proprie, niente come lo studio del campo letterario chiarisce l’importanza specifica nello spazio sociale di ricchezze non economiche, come il capitale culturale e simbolico: nel mondo dell’arte più che in altri la forza del prestigio e del riconoscimento si intreccia in modo sottile con quella del successo commerciale e imprenditoriale. E la sociologia della cultura, che di solito si limita a occuparsi degli aspetti materiali legati alla produzione, trova in Bourdieu l’occasione di confrontarsi direttamente con la creazione letteraria (e quindi con le forme). Ne deriva una stimolante proposta di «scienza delle opere» articolata quanto più possibile «dal punto di vista dell’autore» e organizzata in base a come si presenta di volta in volta, nel campo letterario, «lo spazio dei possibili».

E allora, di nuovo, non stupisce nel saggio il ricorso copioso a Flaubert, il romanziere-sociologo che meglio di tutti ha saputo «oggettivare» nella sua narrativa, i caratteri del campo letterario che si andava formando, letteralmente, sotto i suoi occhi. E che non è, ricordiamolo, un campo qualunque; è il campo letterario moderno, ossia quello che è ancora in una certa misura il nostro. Assieme a Baudelaire e a Manet, Flaubert è da un lato l’artista che meglio esprime, rappresentando l’opposizione fra l’arte e il denaro, la struttura del mondo sociale da cui è stato prodotto (soprattutto in quel capolavoro di autentico «formalismo realista» che è l’Educazione sentimentale, oggetto della lettura ravvicinata che apre il volume).

D’altra parte questi tre «eresiarchi» – come li chiama Bourdieu, per i quali batte con tutta evidenza il suo cuore – hanno saputo, ciascuno col proprio linguaggio (poesia, pittura e romanzo), imporre quella straordinaria rivoluzione simbolica che nella Francia del secondo Ottocento invera l’autonomizzazione dell’arte. Incarnata nell’ideale dell’«art pour l’art», trionfo di una economia antieconomica fondata sui valori del disinteresse, tale conquista storica produce molte delle nozioni che sopravvivono – sia pure sempre più faticosamente – fino ai giorni nostri: la rottura dell’arte con il mondo ordinario e il gusto borghese, l’ascesa di una letteratura consapevole e riflessiva (che conduce ciascuno dei suoi generi a una specie di ritorno critico su se stesso), la nascita dell’intellettuale d’avanguardia, critico delle istituzioni culturali (Baudelaire, la cui candidatura all’Academie française, nel 1861, assume il significato di un «attentato simbolico») e critico in generale del potere (Zola, che risolve il dissidio tra torre d’avorio e impegno politico inventando la figura del letterato che interviene in nome dell’autonomia).

Ma soprattutto la scoperta di un’estetica pura produce, a contatto con le logiche economiche delle industrie culturali, quella struttura dualista che ancora ben conosciamo, segnata dall’opposizione tra il circuito ristretto della letteratura di ricerca – fiera della sua autonomia e autoreferenziale in tutti i suoi aspetti – e il circuito allargato della grande produzione, dove l’eteronomia resiste nella vocazione commerciale. Merito di Bourdieu sta nell’aver descritto, accanto e insieme a questa, l’altra opposizione di fondo, meno visibile eppure invariante: quella tra gli artisti consacrati, depositari delle fette più ampie di riconoscimento e capitale simbolico, e i nuovi entranti, che per esistere socialmente devono mettere in discussione i modelli egemonici, affidandosi alla loro competenza e alla loro capacità di sovversione. Senza dimenticare i critici, che stabilendo il valore delle opere partecipano a loro volta alla lotta per il potere simbolico.

Le posizioni altrui
Non così la teoria, secondo Bourdieu: il suo compito non è prendere posizione e fissare valori, bensì dar conto, mobilitando tutti i saperi disponibili, delle prese di posizione altrui, e delle altrui gerarchie. E però, onesto fino in fondo, lo stesso Bourdieu ha ammesso più tardi di riconoscere in quella di Flaubert la sua stessa difficoltà a prendere sul serio i giochi sociali («e a prendere sul serio quelli che li prendono sul serio, cioè la gente cosiddetta “seria”»). Oggi che l’arte di ricerca si mostra sempre più attratta da tentazioni commerciali, e che queste, simmetricamente, amano profumarsi di impegno, c’è più bisogno che mai di una visione della letteratura dissacrante come quella di Bourdieu; come c’è ancora bisogno di un’arte più autonoma.