La pandemia del Covid ha segnato il «ritorno dello Stato». Ma quale «Stato» è tornato? Prima risposta: lo «Stato» che protegge e tutela, prerogative paterne rimosse dal quarantennio neoliberale di tagli, aziendalizzazione e concorrenza. Sospiro di sollievo. A molti è sembrato tornare quel Welfare che avrebbe potuto evitare il disastro della medicina territoriale. La seconda risposta è più problematica: lo Stato che torna è un assicuratore del Capitale, quello che garantisce gli indennizzi temporanei, ma non ha la capacità di evitare la recessione. È l’idea di Mario Draghi del debito «buono» e «cattivo». È «buono» lo Stato imprenditore che investe ingenti risorse a debito in spese «produttive». I «sussidi» sono improduttivi. In una crisi di sistema la differenza tra «produttivo» e «improduttivo» può essere enorme. Un problema democratico. Quanto è produttivo un reddito di base? E quanto è produttivo il bonus per il monopattino o uno a un’azienda che assume il percettore del cosiddetto «reddito di cittadinanza»? Chi decide? Lo Stato. E Draghi potrà dare una risposta, in prima persona, in Italia. Ma non solo: c’è anche l’altro mondo, gli umorali «mercati», giudici occhiuti che sorvegliano i governi.

DALLA PLURALITÀ delle risposte possibili emerge che lo «Stato» non è mai univoco e non corrisponde all’immagine della «sovranità» idealizzata di recente. Per coincidenza, o scelta editoriale opportuna, è da poco nelle librerie Sullo Stato, il secondo volume dei corsi di Pierre Bourdieu al Collège de France sullo Stato (1990-2) (Feltrinelli, pp. 421, euro 35, traduzione di Massimiliano Guareschi). Il primo, con le lezioni del 1988-1990, è uscito otto anni fa. Leggerli insieme oggi è utile per evitare un «paralogismo» diffuso: proiettare sullo Stato il pensiero prodotto, in un determinato momento, dalle ideologie dello Stato e dal suo rapporto con i mercati. Per toglierci lo «Stato nella testa», diceva Thomas Bernhard in Antichi Maestri, è necessario scoprire ciò che in esso è «impensato». Un’istituzione che ha successo fa dimenticare di avere avuto un inizio e che non è eterna. Bourdieu elabora un «pensiero genetico» che ha un doppio obiettivo: tornare alle origini dello Stato-Nazione, superando l’«amnesia dei cominciamenti» imposta per giustificare l’esistente e dimostrare che è sempre possibile trasformare lo Stato e il suo campo «burocratico».

QUESTA È UN’OPERAZIONE che fa giustizia dei possibili distrutti dalla storia. La «sociogenesi» li riapre ricostruendo le condizioni per agire nel presente. Fare la genesi significa allora riattivare le alternative. Lo Stato non è il funzionario dell’universale che immaginava Hegel, ma il campo dove si svolgono lotte che producono politiche relativamente autonome rispetto a una politica conforme all’interesse dei dominanti. Lo Stato non è un «feticcio», ma una «costruzione» che «si fa facendosi» attraverso istituzioni, partiti, politiche collocate in uno spazio sociale. Tale costruzione è il prodotto di un duplice processo: da una parte, la differenziazione delle società in campi relativamente autonomi; dall’altra, l’emergere di uno spazio che concentra i poteri su di essi e in cui le lotte si presentano come conflitti fra gli stessi campi.

ACCANTO AL LAVORO «genetico» sullo Stato, negli stessi anni, Bourdieu svolgeva anche lezioni e ricerche sulla concezione neo-liberale del mercato e dello Stato nel corso Anthropologie économique (1992-3) o nel libro Structures sociales de l’économie. Dalla lettura incrociata di questi testi oggi emerge che lo Stato (sociale) è stata, ed è tutt’ora, la risposta ambivalente alle esigenze della riproduzione di una vita eterodiretta, mentre il neoliberismo non è semplicemente il ritiro dello Stato a favore della logica di mercato, ma la legittimazione del discorso economico con esperti, commissioni, alti funzionari, media.

Dunque il neoliberismo è un nuovo modo di intervento dello Stato nell’economia che mira a stabilire nuove politiche sociali, mentre lo Stato è il «meta-potere», o potere sugli altri poteri, che combina la logica dell’assistenza sociale con quella dell’investimento sul capitale umano. In questo schema andrebbero aggiunti i cittadini stessi, oltre che i corpi intermedi come i sindacati, attori di una politica nella quale si interiorizza la mentalità (habitus) dell’individualismo proprietario e socializzandola come un valore. Qui emerge lo spinozismo di Bourdieu: conoscere la genesi della violenza, e i suoi effetti, non significa neutralizzare la capacità di pensare e agire, bensì potenziarla nell’ottica dell’utilità comune. Non c’è nulla di più utile, per una donna e un uomo, che associarsi ai propri simili e sperimentare un’altra idea di esistenza dentro e contro il campo sociale nel quale sono assoggettati alla doppia presa dello Stato e del mercato.

In Bourdieu lo Stato appare associato, alla maniera francese, alle nozioni di «servizio pubblico», «interesse pubblico» e disinteresse. Il suo lavoro inizia probabilmente nel 1984 nel libro Homo academicus, dove viene lapidariamente definito: «istanza ufficiale, riconosciuta come legittima, ossia come detentrice del monopolio della violenza simbolica legittima» ed è assunto in La Noblesse d’État nel 1989. La genealogia mostra le sue intenzioni quando l’offensiva neoliberale collabora alla «demolizione dell’idea di servizio pubblico», allo «smantellamento della cosa pubblica» e alla svalutazione dell’«interesse collettivo». Questa consapevolezza spinse Bourdieu a politicizzare il suo statuto di intellettuale, maturando un nuovo rapporto con i movimenti che si contrapponevano all’agenda neoliberale.

SIAMO ALL’ASCESA di Bourdieu sulla scena «anti-neoliberale», nel momento in cui nasceva il movimento «altermondialista» che si sarebbe manifestato tra Seattle e Genova tra il 1999 e il 2001. Questa operazione, frutto di un lavoro collettivo di ricerca, diede i suoi primi clamorosi frutti con la pubblicazione di quel capolavoro della ricerca sociale che è La miseria del mondo, un’inchiesta in grande stile, e a più voci, sugli effetti della trasformazione neoliberale del Welfare e i suoi effetti sulla vita materiale delle persone: aumento delle diseguaglianze, declassamento, alienazione urbanistica subita dagli esclusi e dai subalterni.

La ricerca ebbe un successo editoriale enorme e prese in contropiede il senso comune costruito negli anni Ottanta, e tutt’ora esistente, forgiato da categorie come l’attore, l’individuo, la classe media o il mercato. Con l’esplosione del movimento francese del 1995, il primo di un lungo ciclo di accumulazione di lotte durato fino ai gilet gialli e al contrasto della riforma delle pensioni di Macron, Bourdieu cercò riaprire il suo laboratorio trasformandolo in un intellettuale collettivo, trasversale e diffuso. Socializzò, in questo modo, le conoscenze approntate con coloro che si mobilitavano. L’obiettivo era fare interagire la critica con la politica di massa, trasformando l’una e l’altra in una contro-egemonia, proiettata oltre la resistenza a difesa di un pubblico-statale di cui Bourdieu ha mostrato le contraddizioni. Impresa non semplice dato che ancora oggi la difesa di questa idea di «Stato» è scambiata per l’ultima trincea, mentre è parte del problema. È una delle contraddizioni del «campo» di forze confliggenti che costituiscono lo Stato (sociale).

Questo è il ruolo che si propone l’intellettuale critico: criticare il potere insieme al proprio ruolo nella società. La sua non è una delle pose eburnee da profeta, da testimone dell’autenticità perduta o da annunciatore di catastrofi in voga oggi tra i protagonisti della scena mediatica, secondi soli ai virologi. Sull’intellettuale «televisivo» Bourdieu ha scritto pagine fulminanti che andrebbero recuperate. Il suo lavoro era sottile e, allo stesso tempo, modesto: connettere le istanze della critica all’azione cercando di condividere un lavoro rigoroso, metodico e attento al fare comprendere al più gran numero di persone i meccanismi di un sistema di governo durevole e stratificato che agisce a livello soggettivo e istituzionale. La sociologia è uno sport di combattimento. Mai titolo è più attuale oggi di quello del film dedicato a Bourdieu da Pierre Carles nel 2001. E non vale solo per la sociologia.