Sono intime e dolorose le canzoni, undici, di Obtorto Collo, l’album che segna il debutto solista di Pierpaolo Capovilla, voce del Teatro degli Orrori e nei Novanta di una delle principali band del periodo, gli One Dimensional Man. Duro, preciso e spietato, il cantante veneto, classe 1968, usa le parole con attenzione. Evita le ridondanze, trascura le iperboli, perché da sempre racconta storie che affondano a piene mani nel sociale, in un paese squassato dai giochi politici, dalla lottizzazione, dalle mafie e dalle discriminazioni. Bada all’essenziale e lo fa per una volta senza usare il linguaggio del rock, spiazzando i fedelissimi abituati al furore ritmico del Teatro degli Orrori per abbandonarsi a un linguaggio sonoro d’altri tempi, con vistose reminiscenze francesi. La produzione è affidata a Taketo Gohara, origini giapponesi ma meneghino a tutti gli effetti, già braccio destro di Capossela («Gohato è stata la più bella sorpresa della mia vita professionale. Sono entrato in studio con un’idea e ne sono uscito con un’altra. Il suo contributo è stato cruciale»). I testi sono tutti curati dall’artista patavino, ma le musiche sono state scritte a quattro mani con Paki Zennaro, musicista veneziano e storico collaboratore di Carolyn Carlson. Lo abbiamo sentito.
Un disco quasi fuori da ogni logica di mercato e dal rock. E poi la scelta di lavorare con Zennaro.

Ma l’ho voluto proprio per questo, Paki è avulso dal territorio rock, lui compone musica per la coreografia contemporanea. Ci siamo cimentati lo scorso anno in una cinquantina di appuntamenti pasoliniani (nel 2013 ha girato l’Italia con uno spettacolo di reading intitolato «La religione del mio tempo», ndr). Il testo è del 1958 ma è quanto mai contemporaneo e sembra dedicato a noi, è quasi per dire che il nostro paese è irriformabile in qualche misura. Ho cercato di fare un lavoro diverso da Il Teatro degli Orrori. Volevo dedicarmi a un progetto dalla base narrativa forte, che raccontasse il paese sino in fondo, le sue ingiustizie, le sue prevaricazioni. Gli ultimi, gli emarginati sono i soggetti che trovo più interessanti per narrare per dire qualcosa, soprattutto ai più giovani. Perché viviamo oramai in una società che vent’anni di berlusconismo, di malaffare ha ridotto molto male.

«Invitami», il pezzo d’apertura, racconta l’amore ma si potrebbe darne un significato più ampio. Parla di accoglienza e rispetto.

Io in realtà nella canzone parlo di amore vero, l’amore coniugale tra uomo e donna, ma anche fra uomo e uomo, donna e donna. Cerco di narrare lo spazio reciproco, perché se c’è un problema oggi nella società italiana è il dominio di genere. Cos’è l’amore se non un rapporto sociale? E dentro quel rapporto si verificano spesso situazioni di prevaricazione nonché le ingiustizie più terribili che possa vivere una persona.

In «Dove vai» ti poni mille interrogativi: dove vado, cosa faccio, chi sono. Nel momento in cui ci si fa queste domande ci si predispone a un miglioramento, anche nell’incertezza. Come se dicessi «non so cosa succederà ma vado avanti lo stesso».
Interpretazione corretta, direi che quella fragilità a cui tu accenni riguarda in particolare l’individuo, anche astratto dal fatto sociale. Parlo di me, io vivo in una situazione in cui non riesco a trovare un’identità che sia durevole. Viviamo in tempi così incerti, dove l’oblio dei valori soprattutto di quelli della resistenza e l’indifferenza che ha preso il sopravvento sulla politica, ha travolto tutto.

A proposito di resistenza in «Arrivederci», il brano che conclude l’album, parli del poeta veneto Andrea Zanzotto, anche partigiano nel gruppo di giustizia e libertà.
È l’ultima ma è la prima che ho scritto. Dedicata a un grande poeta e a un partigiano e la «partigianeria» – va sottolineato – è un valore che abbiamo cancellato. Ovverosia avere dei valori che siano veri e stabili all’interno dei nostri sentimenti, che stiano dentro il nostro cuore oltre che dentro al nostro cervello. Andrea Zanzotto fu testimone dello scempio del territorio e era arrabbiatissimo per questo, così come lo era Pasolini… Noi li ammazziamo e li dimentichiamo i poeti, ma Pasolini come Zanzotto seppe vedere cosa stava accadendo in Italia fin dalla metà degli anni ’50, ovvero l’oblio dei valori resistenziali e l’abbraccio dei disvalori del consumismo…. Questo è il senso di Arrivederci.
Il virus del razzismo e della discriminazione ha intaccato da tempo il Belpaese. «Irene» racconta proprio questo.
Irene l’ho incontrata davvero, anche se è un nome di fantasia, fuori da un ospedale di Treviso dove mia madre stava morendo. Era una ragazzina bellissima vestita con gusto. A pochi metri la sua famiglia zingara, anzi Romani. Cosa fanno questi ragazzini, come spiega bene Bianca Stancanelli nel suo libro La vergona e la fortuna, soprattutto a scuola? Cercano di non essere riconosciuti come appartenenti alla comunità Romani, perché una volta riconosciuti come zingari vengono discriminati, stigmatizzati. Ecco alla vista di quella scena mi si è spezzato il cuore.
Musicalmente «Obtorto collo» non sembra un disco italiano, nel senso della ricerca melodica; si sentono chiaramente molte reminiscenze dagli chansonnier francesi.
Sì, è vero. Anche se a condurmi su quella strada è stato un artista straordinario, lo scozzese Scott Walker che ho conosciuto tardi, e che aveva tradotto in inglese i testi di Brel. Lui mi ha fatto scoprire la canzone francese e mi ha poi spinto avanti nella ricerca.
In «Bucharest» hai voluto il pianoforte di Cesare Picco e gli archi di Davide Rossi. Rischi di spiazzare il tuo pubblico…
Era quello che volevo, l’obiettivo è sorprendere. Poi me ne infischio dei detrattori, per me fare un disco è sempre una sfida nei confronti di me stesso ma anche nei confronti di chi conosco. Che senso avrebbe ripetere sempre la stessa formula?