In questi giorni, nel rileggere Caterina Cornaro in abito da cortigiana, ho ricordato un episodio di tanti anni fa. Una volta Piero Sanavio venne qui a casa per farsi consigliare, da qualcuno che ne sapeva di più, sulla pulizia di un dipinto di scuola veneziana del Cinquecento. La tela era tutta ideata in un verde pallido ma molto, molto sporca, patinata da ombre giallognole formatesi col tempo: in genere polvere e fumo di caminetto. Piuttosto grande, raffigurava una donna vestita in modo bizzarro, qualcosa che non avevo mai visto in un quadro. Ritratta frontalmente, si mostrava un bel po’ scollacciata e, soprattutto, aveva una sorta di grembiulino di vero pizzo sul grembo che si allungava fino alle cosce nude. Ebbene, ci spiegò Sanavio, bastava sollevare quell’insolito posticcio e si sarebbe vista una scottante nudità. Un dipinto da bordello, insomma, con tanto di siparietto. Una bella scoperta nel campo dell’arte veneziana. Nessuna firma, naturalmente, ma, sul retro, l’indicazione del soggetto: «Caterina Cornaro».
Passò qualche anno, e un giorno chiesi a Piero di farmi rivedere quel quadro. Lui assentì volentieri, ma in seguito evitò di parlarne di nuovo. Oggi mi lascia con l’attesa di un’aspettativa che non avrà seguito. In verità, il padovano Piero Sanavio ha lasciato tutti – famigliari, amici, nemici, studiosi, lettori – il 4 gennaio scorso, lasciando, con la sua eredità scrittoria, anche un vuoto sino ad ora silenziato nella cultura italiana. Aveva 89 anni.
Di testa caparbia
Intellettuale solido di estro suo con l’aggiunta di solide letture, di testa caparbia, combattiva (‘superiore’), da cervide (per animosità argomentativa: era come pochi), spesso perdente; studioso altrettanto solido di Letteratura Americana, sua eterna vocazione e passione (Ezra Pound, H. D. Thoreau, i Puritani, Hemingway, Fitzgerald…), e Inglese (Conrad, Wyndham Lewis, Francis Beaumont, George Peele, Defoe) e Comparata (Céline, Ionesco, Gombrowicz, Quasimodo); narratore in proprio (La Maison-Dieu, La Patria, La felicità della vita, Amina o le limitate possibilità dell’azione) e autore di teatro (La seduzione); cultore d’arte novecentesca (John Balossi, Giovanni Korompany, Depero); docente universitario (ma non era certo un accademico!) più volte ineffabilmente ripudiato; giornalista professionista («Il Mondo», l’International Herald Tribune, Il Giorno, l’Ansa); critico militante («La fiera letteraria», La Stampa, Il Sole-24 Ore, il manifesto, «Tel-Quel», «Paideuma», «Il Dramma», «Nuova Corrente»); autore di documentari: Montale, Carlo Guarienti, i Barbarigo Cadorin (il Veneto nei veneti non si spegne mai); fellow della Rockefeller Foundation; fellow dell’Università di Yale; delegato delle Nazioni Unite a diplomatico internazionale presso l’Unesco di Parigi; fondatore dell’Institut Eugène Sigaud pour une Anthropologie de l’Ecriture (ancora a Parigi), Sanavio ha lasciato molti segni del suo passaggio.
Tuttavia, è come «americanista» che noi lo ricordiamo.
Iniziò con una tesi di laurea su Pound discussa a Venezia. Un lavoro cresciuto poi, dopo anni passati negli Stati Uniti (a Harvard e Yale), in un libro pubblicato da Marsilio nel 1977. In tale impresa egli si avvaleva del sapere che si acquisisce nel contatto diretto con l’autore, nel suo caso addirittura il vecchio «Ez», prigioniero al St. Elizabeths di Washington fra i pazzi, dove Sanavio, da Harvard, si recava nei weekend. L’interesse per Pound durerà tutta la vita. Ma non a Pound soltanto resterà fedele. C’è infatti da dire che è stato il primo in Italia a occuparsi di un altro saggio ‘santone’ americano: il naturalista misticheggiante Henry David Thoreau, sul quale già nel 1958 si impegnava con l’edizione di un volume di Opere scelte per Neri Pozza. Su Thoreau tornerà più volte, curando per la BUR il capolavoro Walden e facendo esordire, nel 1970, Disobbedienza civile, un testo particolarmente provocatorio e a lui empatico, ispiratore, fra l’altro, del pensiero e dell’azione politica di Gandhi, dei Beat, degli hippie.
Non c’è dubbio che Sanavio è stato uno studioso di rottura nel panorama italiano, resuscitando Thoreau dall’oscurità in cui dormiva, rivalutando la scrittura dei Puritani, ‘sdoganando’ – con più o meno faziosità – Pound da sentieri di pensiero ideologico da noi troppo usurati. Invece, con La gabbia di Ezra Pound (Scheiwiller 1986, Fazi 2005) egli si volgeva agli anni di «internamento» (a Pisa, a Washington) e a «fatti correlati». Più (auto)biografismo, dunque, veniva qui impiegato. E quale biografismo! La gabbia è una «narrazione» in cui, dietro ripensamento sugli incontri al St. Elizabeths, Sanavio dà letture di alcuni fatti (anche «fatti» secretati, politicamente molto, molto delicati), «alquanto diverse che in passato: si tratta di ipotesi – egli scrive – se ipotesi, come sosteneva Wittgenstein, è ogni tentativo di spiegazione». La storia di quell’internamento viene da lui ricostruita, oltre che sui suoi «appunti e una scorta di fotografie, sulle notazioni e i ricordi delle persone presenti a quegli incontri» (quindi sulla base di testimonianze incrociate), e sul carteggio intercorso fra se stesso e Pound, di cui allega campioni.
C’è poi il Sanavio di un canone americanista di sua scelta. E questa sua ulteriore persona emerge negli ultimi anni, anni in cui egli continua a scrivere romanzi, un piacere che alternava al lavoro recensorio, da cui, appunto, si traggono i pezzi raccolti (ma parecchio rivisitati) in Baedeker Americano. Esercizi di lettura del 2014, dove si parla del lirico Grande fiume dai due cuori di Hemingway, di Gertrude Stein, Melville, Olson, Georgia O’Keeffe, Toni Morrison… Molto diverso è invece, sul piano della riconfigurazione concettuale, l’ultimo libro, Americana (a cura di Mila Corvino, Mincione Edizioni, pp. 407, euro 14,00). E qui siamo al massimo della sympatheia di chi scrive e la complessa antropologia politico-ideologica del fenomeno «America». L’autore è diventato egli stesso quell’insieme culturale, si identifica intellettualmente con quell’entità, la compenetra fino in fondo, la ha infine, e in extremis, ‘cannibalizzata’ per le vie non tanto del vissuto ma dell’infusione in sé di quell’entità attraverso i ritratti letterari che la esprimono (si badi: sempre anti-establishment), senza rinunciare neanche ai sedimenti di ciò che diviene (al di là del Veneto) il suo stesso riflesso mentale.
Intervista alla McCarthy

In questo senso, l’intervista («da uomo a uomo»), talora un po’ beffarda, a una Mary McCarthy ultra-cinquantenne (una «tigre», una «bestia da preda»?), non a caso un’intellettuale come lui, ne è un segnale, una prova di come egli abbia saputo fondere l’esperito con scrittura canonica e trama ideologica. McCarthy – dice – rappresenta «ciò che ancora resta di più vitale dell’America com’era una volta – l’iconoclastia irruente, il gusto satirico, la testardaggine orgogliosa, l’onestà, la gloria del provincialismo: il quale essendo il provincialismo d’un Paese la cui estensione coincide con quella di un continente, non assume (o piuttosto non assumeva, trent’anni fa) le patetiche limitazioni del nostro. Trent’anni di lotta sistematica sono andati nella formazione di questo prodotto degli Stati Uniti, vissuti, per così dire in prima linea». Un autoritratto.
Americana (titolo d’ambizione vittoriniana) si apre con una «Fuga da Itaca» di Huckleberry Finn, il ragazzo, un Mark Twain delegante, che taglia la corda dall’ambigua ‘civiltà’/società conformista, un Thoreau che mette in pratica la «disobbedienza civile» per salvare la propria coscienza di americano ancora abbarbicato alle origini del Sogno; e si chiude con «Stalin tra Hemingway e Dos Passos». Ci si potrà chiedere: ma che c’entra Stalin? C’entra, c’entra per Sanavio! C’entra eccome.
E allora, lasciamolo fare Sanavio, lasciamolo centrare a modo suo, lasciamolo narrare, polemizzare, combattere con l’arma della parola, del ragionamento di una testa che pensa (magari bislaccamente), con cui si può andare d’accordo o rinunciare a confrontarsi, mentre, come Mary McCarthy, trasforma «i propri nemici in rospi».