Onorare le persone che perdiamo è il nostro modo di salutarle. In questi giorni, i giornali (con poche eccezioni) si sono dimenticati di salutare un grande pittore italiano, siciliano, che ci ha lasciati sabato sorso: Piero Guccione. Sembra che abbiano dimenticato la magnifica luce dorata e azzurra dei suoi quadri, la sua sobrietà poetica, il silenzio che riempiva la sua pittura, le marine, le rocce, le campagne, la linea che divideva la terra dal mare o il mare dal cielo, una linea bassa, diritta, blu o grigia, la profonda dolcezza della sua persona, la sua bellezza personale, che non lo ha lasciato nemmeno nella vecchiaia, insomma tutto quello che faceva di lui, uomo e pittore, un essere eccellente e squisito, raro soprattutto, morbido, austero.
Dimenticarsi di onorarlo è come dimenticarsi di noi, e poiché è proprio quello che stiamo facendo adesso, noi italiani, dimenticarci di noi per inseguire un sogno prepotente e volgare, è tanto più importante ricordare quello che qualcuno di noi è stato e continua a essere nello splendore della sua opera.
Da giovane, Piero Guccione ha partecipato alle spedizioni archeologiche di Fabrizio Mori nel Sahara, per studiare le pitture rupestri, di cui ha poi organizzato una mostra alla Columbia University di New York. Ha esposto le sue opere per la prima volta a Roma nel 1960. Nel ’79 è tornato a vivere in Sicilia, in una campagna tante volte ritratta, fra Scicli e Modica, insieme a Sonia Alvarez, pittrice come lui, ma di interni, anziché dell’aperto, come se tra loro, in due studi contigui, si dividessero i due orizzonti umani. Da lì partiva per esporre in Italia e nel mondo, mentre a Scicli si formava intorno a lui un gruppo di pittori chiamato appunto il Gruppo di Scicli. È morto sabato 6 ottobre a Scicli, dov’era nato 83 anni fa. Ho letto che le sue ceneri saranno sparse in mare, dove incontreranno infiniti resti umani, e penso che le due umanità si mescoleranno con grande naturalezza.