Nella genealogia wittkoweriana degli artisti malinconici e mercuriali, persi nei fumi troppo densi di pensieri ossessivi, di tristezze ricorrenti, Piero di Cosimo si è aggiudicato l’onore discutibile che si riconosce ai capofila. Accanto a Jacopo Pontormo – altro fiorentino sofistico tentato dagli eremitaggi meditabondi, più giovane tuttavia di quasi mezzo secolo –, il pittore, figlio di un fabbro e allievo di un maestro mediocre della fatta del Rosselli, è stato incluso in Born under Saturn fra i campioni esemplari di un inesausto turbamento psicologico, sul punto di cedere a profonde patologie.
Rispetto alle conclusioni di quello studio – che nell’ambito degli scritti sugli Old Masters risuonò sul 1963 come un anticipo de I pugni in tasca di Bellocchio, nel descrivere i disordini umbratili di una familia dignitosa – Piero di Cosimo si presta però, efficacemente, per raccontare quanto le figure strambe, chiuse nel recinto della letteratura accademica, servano in fondo da ‘giani’ bifronti, stilizzando a un tempo gli esiti estremi di un carattere umorale e lo sguardo censorio di un milieu irreggimentato.
Tutto ciò che sappiamo su Piero viene, infatti, dal testimonio fazioso di una voce sola, quella cioè di Giorgio Vasari, il quale si dilunga sul collega nelle edizioni susseguenti delle Vite de più eccellenti pittori, scultori e architettori, uscite in prima stampa sulla metà del Cinquecento e poi aggiornate e riviste nel ’68 per i torchi fiorentini dei Giunti.
Piero era morto nel 1522; il résumé va dunque considerato una testimonianza postuma, frutto di voci pettegole o di ricordi prudenti, raccolti qua e là nell’ambiente malevolo delle botteghe fiorentine. Non a caso, anche solo il rapporto sulla sua scomparsa si riveste dei contorni incerti di un cold case irrisolto, aperto alle più varie deduzioni, ai più indicibili sospetti.
«Laonde per sì strane sue fantasie vivendo stranamente si condusse a tale, che una mattina fu trovato morto appiè d’una scala (…) et in S. Pier Maggiore gli fu dato sepoltura».
Una fine tanto desolante è interpretata dal Vasari come la conseguenza ineluttabile di condotte irrequiete, di una «vita da uomo più tosto bestiale che umano». Piero – secondo il suo biografo – non voleva «che le stanze si spazzassino, voleva mangiare allora che la fame veniva, e non voleva che si zappasse o potasse i frutti dell’orto, anzi lasciava crescere le viti et andare i tralci per terra, et i fichi non si potavono mai né gli altri alberi, anzi si contentava veder salvatico ogni cosa come la sua natura, allegando che le cose d’essa natura bisogna lassarle custodire a lei senza farvi altro»; e le manie arrivavano al punto che per cavar arabeschi di sicuro effetto – sempre stando alla lettera delle Vite – il pittore amava considerare con scrupolo «un muro dove lungamente fosse stato sputato da persone malate», mentre per non rubar tempo all’impasto dei colori e alla preparazione delle tavole soleva cuocer nello stesso pentolino in cui addensava le colle leganti uova sode a cinquanta per volta, per tenerle poi «in una sporta» e consumarle «a poco a poco».
Miasmi nosocomiali, vapori antisettici pervadono dunque la traiettoria sghemba di un creatore d’ingegno, che pure nella rigida gerarchia della raccolta succede soltanto al gruppo ristretto dei Leonardo, Correggio e Giorgione, fra i geni luminosi lustranti il campo eccelso delle arti lungo il passaggio trionfale fra Quattro e Cinquecento: la sua indole «astratta», infatti, lo aveva fissato «pazzo» nella mente di amici e garzoni, «ancora che egli non facesse male se non a sé solo (…), e benefizio et utile con le opere a l’arte sua».
Una deduzione così amara lascia però trapelare un dubbio. Rispetto all’aristocratica kalokagathia vasariana, il dichiarato disaccordo fra costumi e maniere solleva domande consistenti circa gli obiettivi reali di cui si carica il referto riservato a Piero. Contrapposto soprattutto al profilo ideale del pittore-cortigiano tratteggiato attraverso altri, decorosi medaglioni delle Vite (da quello erotico di Raffaello alla temeraria parabola di Giulio Romano, per arrivare infine all’impudico autoritratto concesso a se medesimo dal tracotante artista aretino), la diagnosi aggiustata al collega scomparso sembra velare disaccordi profondi, rivalità segrete, connesse innanzitutto a ragioni di stile ma svasate finanche nel terreno di ferme convinzioni filosofiche, trascese sul campo di radicati giudizi morali.
Nella curiosità assillante per il mefitico espettorato di pazienti cagionevoli si riconoscerà ad esempio la caricatura grottesca, forzata in chiave d’agra ironia, di un insegnamento del Vinci, affidato agli appunti caotici del Trattato di pittura; lo stesso Leonardo aveva suggerito, fra i precetti di quelle carte, d’esaminare le «macchie» «in alcuni muri imbrattati», per cercarvi «varie invenzioni», paesaggi lirici secondo le preferenze d’ogni sguardo. Piero, al rientro fiorentino del maestro più anziano dopo un lungo soggiorno milanese, era stato in effetti fra gli studenti del suo colorito fumoso, fra gli esaminatori assidui di composizioni eloquenti favorite ormai da una fama diffusa: quando il Vasari riconosce un discepolato siffatto, suggerisce innanzitutto la rivalità che poté instaurarsi fra il proprio michelangiolismo ‘organico’ e le diverse affezioni di un predecessore eterodosso.
Perfino il tormento naturalistico di Piero, amante compassionevole di alberi e bestie, traduce una lezione del Vinci: i mostri da questi immaginati in dipinti e disegni (descritti a più riprese nella sua biografia come «bellissimi e bizzarri») riecheggiano un arcinoto divertissement leonardiano, capace di camuffare in un credibile drago alato il corpo smilzo di una lucertola campagnola.
Secondo un’analoga lettura, l’ossessione per l’edìbile biancore di albumi addensati, per l’accesa farinosità di tuorli rappresi, potrebbe allora nascondere l’ennesimo ribaltamento operato con sarcasmo dal racconto per sminuire la distinta abilità dell’artista nel ricorso alla pittura ad olio. L’uovo infatti era l’ingrediente mancante nell’amalgama della nuova tecnica, rispetto a quelli contenuti nelle vecchie ricette relative alla stesura delle tempere…
E cosa dire quindi sul suo smodato desiderio di solitudine, che fa il paio con certe inclinazioni ciniche di fronte al mondo, esemplate sul modello di Diogene di Sinope? Il pensatore greco è infatti narrato dal Vasari – che lo menziona tra le figure di antichi filosofi inseriti dal Sanzio sullo sfondo maestoso della Scuola d’Atene – come «figura molto considerata e astratta», devota di una disinvolta noncuranza lontana dagli affanni del quotidiano; similmente, per il biografo, Piero «nella (…) vita così strattamente godeva, che l’altre appetto alla sua gli parevano servitù».
Relazione clinica su di un balzano impulsivo, afflitto da depressione e parletico, oppure icona di uno spirito libero (e analfabeta), capace di vivere il proprio status senza ossequi in uno spazio di assoluta indipendenza: il ritratto di Piero è soprattutto il riflesso di un ambiente culturale e delle sue regole, delle sue rivalità e delle gelosie, pronte a impiegare la ‘stranezza’ come un’arma retorica, utile a degradare una scuola, a svalutare un linguaggio e i suoi diktat formali.