Ha ragione Marco Assennato nel recensire il libro di Pier Vittorio Aureli Il progetto dell’autonomia. Politica e architettura dentro e contro il capitalismo a sottolineare la centralità della critica del lavoro intellettuale negli anni Sessanta e Settanta, questione alla quale lo stesso Aureli dedica un capitoletto del suo libro. In Italia Franco Fortini in Verifica dei poteri e Luciano Bianciardi ne La vita agra, tra gli altri, posero con forza la questione del rapporto tra gli intellettuali e la loro integrazione nell’industria.

In Germania, sulla scia della teoria critica francofortese, fu Hans Jürgen Krahl in quello straordinario scritto che sono Le Tesi sul rapporto generale di intellighenzia scientifica e coscienza di classe proletaria del 1969 a porre criticamente la questione dell’integrazione del lavoro intellettuale nel tardo capitalismo, traendone tutte le conseguenze politiche. «I componenti dell’intellighenzia scientifica – scriveva Krahl – non possono più intendere se stessi, nel senso della borghesia illuminata, come possessori per così dire intellegibili della Kultur, come produttori di rango superiore, di rango metafisico».

Nessuna difesa del ruolo separato e tradizionale dell’intellettuale e dell’artista dunque, ma al contrario la sua delegittimazione che apre nuove prospettive di emancipazione, come qualche anno dopo ricorderà anche Lucio Castellano in un suo articolo pubblicato sulla rivista «Metropoli» in cui scriveva che «il mutamento che materialmente stiamo vivendo è diverso, perché non concentra il potere ma lo disperde, e la prima cosa che mette in discussione è la possibilità del governo, il ruolo e lo statuto del sapere degli intellettuali»; e ancora: «il lavoro intellettuale può rappresentare quello operaio dirigendolo; nel momento in cui diviene produttivo esso stesso, non c’è più nulla da rappresentare e nessuno più che rappresenti».

Eccola dunque la grande trasformazione che in una volta sola la faceva finita con l’intellettuale borghese, la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e la rappresentanza, e anche necessariamente con la figura dell’artista moderno, la sua leggenda e la sua «aura» individuale, leggenda e aura sulle quali invece avrebbe fatto leva ideologicamente il postmoderno nel suo processo di valorizzazione e «brandizzazione» del prodotto estetico. Perché, è bene sottolinearlo, quella trasformazione lasciava aperta la possibilità di una scelta politica su che fare.

In questo senso Aureli ricorda il ruolo strategico di due mostre, al Moma di New York e alla Triennale di Milano, che agli inizi degli anni Settanta promossero la internazionalizzazione del design italiano. Una promozione che disinnescava la dimensione politica della teoria e della pratica architettonica lanciandole sulla superficie liscia di un stile postmodernista che scommetteva sull’apologia dell’esistente. Ed è proprio qui che viene da pensare che sulla questione del lavoro intellettuale e della sua trasformazione, proprio sulla fine dell’intellettuale e dell’artista separato e tutto ciò che necessariamente ne consegue, si sia consumata una divisione della quale non si può non tenere conto, una diversità di posizioni tra chi aveva catturato temi e parole del lessico operaista e chi continuava e avrebbe continuato a lavorare criticamente per trasformare l’esistente.