Nel Faust (1808), Goethe crea una sublime metafora per significare il connubio tra la Germania del suo tempo e la Grecia antica: Faust si slancia verso Elena, ma gli resta in mano solo il velo della bellissima donna; quel mondo passato lo possiamo cogliere solo con lo spirito. Così, forse, dovrebbe ancora fare un filelleno moderno o chi volesse cercare tracce di culture e popoli antichissimi: rassegnarsi a custodire la memoria dei luoghi visitati tempo addietro e immaginare quelli che ancora vorrebbe vedere. La nostra percezione dei luoghi è viziata dalle aspettative che riponiamo nella visita, sulla scorta di letture, racconti e immagini; è per questo che, raramente, quando torniamo in un posto per la seconda volta, proviamo le stesse emozioni della prima, chiedendoci se siamo cambiati noi o ciò che ci circonda: entrambi probabilmente. La condizione ideale del viaggio, forse, è la stessa del conte di Volney, il quale, alla fine del Settecento, non ebbe bisogno di un oggetto reale per le proprie meditazioni (Les Ruines…, 1791): le rovine di Palmira di cui parla non le vide mai, le conobbe solo dalle tavole illustrate dell’archeologo inglese Robert Wood. Aveva però viaggiato in Egitto, Siria, Libano e veduto monumenti antichi, resti di templi, di palazzi e fortezze, di colonne, acquedotti, tombe, che orientarono il suo spirito alla meditazione sul passato dell’umanità.
Il desiderio di Winckelmann
Nel XVIII secolo, la Grecia non era un luogo da Grand Tour, i pericoli del viaggio scoraggiavano ancora molti. Winckelmann non poté appagare il desiderio di andare a Olimpia a causa della morte, ma certo ne sarebbe stato deluso. Dall’inizio dell’Ottocento, con la Grecia sottratta all’impero Ottomano, cultori di antichità e architetti non si fermano solo ad Atene, ma si spingono in luoghi impervi, verso il Peloponneso, in Argolide – terra che aveva nutrito con i propri eroi l’epica omerica e le tragedie dell’età della democrazia ateniese: Argo, ma soprattutto Micene, la città del comandante in capo degli Achei a Troia, Agamennone. Alcuni di questi luoghi erano già abbandonati all’epoca in cui li vide Pausania, lo scrittore di guide turistiche vissuto nel II secolo d.C. Giunse a Micene verso il 170 e annotò: «Ci sono costruzioni sotterranee di Atreo e dei figli… e c’è la tomba di Atreo, e anche le tombe di quanti, ritornati da Ilio con Agamennone e invitati a banchetto da Egisto, furono assassinati da lui».
Osservando la Porta dei Leoni, nella sua testa saranno riecheggiati i versi dell’Agamennone di Eschilo, quando il re miceneo ritorna alla sua patria dopo dieci anni e l’araldo così lo annuncia: «O palazzo dei re, cara dimora, o seggi venerandi, e immagini degli dei rivolte al sole… accogliete come si conviene il sovrano dopo così lungo tempo, con questi vostri sguardi luminosi». Immaginiamo dunque il corteo regale attraversare la Porta dei Leoni e inerpicarsi tra le ali della folla fino al megaron, la residenza dove Agamennone, invece della gloria, avrebbe trovato la morte, trafitto da Clitemnestra e dal suo amante Egisto.
Un paio di secoli dopo, anche i sudditi di Agamennone, che all’epoca non si sapeva parlassero greco (lo scoprì un ingegnere inglese con il pallino delle lingue, Michael Ventris, nel 1953), scomparvero; le cittadelle micenee furono abbandonate, un tempo si pensava a causa di un’invasione esterna, i Dori o gli Eraclidi della tradizione antica, ma più probabilmente per un’implosione interna dei regni stessi. Da allora le fortezze divennero rovine. Anche i Greci ebbero le loro rovine e quelle presenze monumentali vennero percepite come appartenenti a un mondo mitico, a una dimensione eroica. Nacque così nella Grecia arcaica una vulgata dell’eroismo, ancora recepita da Pausania.
I suoi libri furono il Baedeker dei viaggiatori che, dall’inizio del XIX secolo, si avventurarono per le strade impervie e polverose del Peloponneso. Come l’archeologo inglese Edward Dodwell che, giunto a Micene all’inizio del 1806, annota: «Mi sono avvicinato alla città ciclopica di Pelope con un così alto grado di venerazione che nessun altro posto in Grecia mi ispirò».
Quando oggi si giunge a Micene e si è ancora lontani, in maniera da non scorgere i torpedoni che circondano la cittadella come moderne macchine di assedio e sciami di turisti vocianti in diverse lingue, che si inerpicano per i resti brulli, l’altura scarnificata dagli scavi somiglia, come scriverà Brandi, alla gobba di un cammello, «un unico sasso, fra altri sassi». L’aspetto della cittadella non dovette presentarsi diversamente a un gruppo di persone recatisi lì settanta anni dopo Dodwell. La soglia della Porta dei Leoni era mezza sepolta dal fango misto a detriti portato dalle piogge invernali. Quel drappello di persone, una cinquantina, che la mattina del 7 agosto 1876 si dirigeva verso la rocca, non si preoccupava di tutto ciò: erano uomini ben attrezzati, con pale, picconi, setacci e gerle di vimini. Erano operai guidati dal giovane archeologo Panagiotis Stamatakis, per conto della Società archeologica greca, ma il denaro per l’impresa costosa era fornito dall’ormai celebre scopritore di Troia, Heinrich Schliemann: «Ho il permesso per scavare Tirinto, Micene e Orchomenos», aveva scritto il 18 luglio all’orientalista Emile-Louis Bournouf. Da quel momento, in particolare con l’eccezionale scoperta delle maschere d’oro (XVII secolo a.C.), Micene esce dal mito e entra nell’archeologia.
Palazzo di Minosse in stile Liberty
L’archeologia può però creare nuovi miti, fatti propri dal turismo non più elitario: il palazzo di Minosse ricostruito in stile Liberty all’inizio del Novecento, le maschere di Agamennone e Menelao, le tombe di Agamennone, Clitemnestra e Egisto, attribuzioni fantasiose. L’archeologia riporta alla luce resti sepolti, ma spoetizza i luoghi del Grand Tour, come lamentava lo scrittore francese Louis Bertrand: «La scienza è come le cavallette … Vuota le tombe, distacca i bassorilievi, imballa le statue per inviarli in musei lontani, deteriora gli affreschi con reagenti chimici … È un brutto scherzo di invitarci davanti a frammenti di mattoni o di calcinacci, radici di muri, fossati e buchi con il pretesto che vi era, in questo posto, una città o un monumento illustre». Gli fa eco Brandi negli anni cinquanta, con l’occhio del fondatore dell’Istituto Centrale del Restauro: «Salire per la strada regale, acciottolata burrascosamente, non sempre fa distinguere dove la pietra sorge dal seno della terra come un dente, e dove invece fu rimessa … Dio mio, che sforzo di fantasia richiede sempre questa Grecia!». Ed ecco il contrappunto di Arbasino a Delfi un decennio dopo: «Ma ai lati di questa Via Sacra, un’erta sudante e frustrante che bisogna scalare al sole senza grazie da chiedere, e intorno ai resti del tempio di Apollo e del teatro … rimane così poco, solo inclite pietre metafisiche … e bisogna metterci tanto del nostro, se si vuole provare un po’ di suggestione a ogni costo».
Quando oggi si viaggia, che sia Micene, Istanbul o Roma, si osservano scene che si stenta a comprendere: i turisti mangiano cibi scadenti in posti insani, sono presi di mira da teppisti o importunati da accattoni, mentre si trascinano, come zombies stralunati, attraverso città arse dal caldo. Il portale di un banale edificio viene fotografato con la stessa attenzione di Palazzo Farnese, il tutto riversato nel tritacarne di un apparecchio fotografico che gira vorticosamente, staccato dall’occhio. Montaigne diceva che viaggiare serve per «sfregare e affinare … (il proprio) cervello contro quello altrui», ma ormai il destino delle città è di essere popolate da ‘turisti involontari’ che cercano tracce di sicurezze familiari e conferme dei loro pregiudizi.