«La sera prima abbiamo suonato a Fayetteville. Il giorno dopo, ho ricevuto la telefonata di primo mattino: “Ci vediamo a New Orleans”. Sono sgattaiolato via e ho lasciato la mia band nel motel, ad eccezione di Henry Nash, Lee Diamond e Chuck Connors».
Per coprire le circa cinquecento miglia che dividono Fayetteville, in Tennesse, da New Orleans, in Louisiana, occorrono almeno otto ore ininterrotte di guida. La storia racconta inoltre che giunti all’altezza del lago di Pontchartrain, la pioggia fosse così forte che i tergicristalli della Chrysler a malapena riuscivano a fare il proprio lavoro. Tutto questo non fermò un giovane e arrembante Little Richard, che quel 14 settembre del 1955 riuscì ad essere nel posto giusto al momento giusto, nel French Quarter, al numero 840 di Rampart Street. Ad aspettarlo nei J&M Studios vi erano il suo produttore Robert «Bumps» Blackwell, il tecnico del suono Cosimo Matassa e parte della Studio Band, la formazione residente e già salita agli onori delle cronache per essere alle spalle della stella nascente Fats Domino: Lee Allen al sassofono tenore, Alvin «Red» Taylor al baritono ed Earl Palmer alla batteria. La sessione prese il via, ma si mostrò infruttuosa, al punto tale che Bumps raccontò successivamente che quanto realizzato fino a quel momento era davvero deludente, come se «Tarzan cantasse con la voce di Topolino». Per cercare di invertire la rotta, il produttore come ultima risorsa ordinò una pausa, che si svolse al Drew Drop Inn, club di riferimento in città. E proprio lì, Little Richard mettendo le mani sul pianoforte del locale per mostrare ad Allen il suo stile, tirò fuori l’idea che poco dopo, al ritorno da Matassa, divenne in soli quindici minuti Tutti Frutti.

SELF-MADE MAN
La narrazione alle spalle di questa hit è un vero e proprio paradigma. Include tutte le coordinate necessarie per raccontare un meraviglioso sogno americano in musica: una lunga strada da percorrere da nord verso sud avendo come meta finale l’affascinante città della Louisiana, uno studio di registrazione importante, il tracollo del progetto artistico salvato in extremis dal talento cristallino, il successo. Un coacervo di elementi dall’indiscutibile fascino letterario, che basterebbero a soddisfare i bisogni di una carriera intera per frotte di musicisti. Non per «The Architect of Rock’n’Roll», «The Originator», «The Emancipator»: per Lil’ Richard, così apostrofato da bambino, il nastro dell’esistenza è partito molto prima ed è terminato ben più avanti di ogni aspettativa.
Richard Wayne Penniman, scomparso lo scorso 9 maggio, ha racchiuso in sé ogni carattere distintivo della mitologia statunitense del self-made man. Nel corso della lunga carriera grazie ad una serie impressionante di singoli di successo ha imposto il proprio stile: al ritmo di Rip it Up, Long Tall Sally, Lucille e Good Golly Miss Molly, ha fatto ballare milioni di persone e ha lasciato un segno indelebile in gente come Neil Young, Bruce Springsteen e Paul McCartney. Forte è l’esempio dell’influenza sui Beatles, che ne hanno sempre dichiarato immensa ammirazione. In tal senso oltre alle aperte citazioni del re con molteplici rifacimenti di suoi brani, parlano chiaramente una interessante intervista di Little Richard rilasciata nel 1964 al famoso conduttore Dick Clark nella trasmissione televisiva American Bandstand, nonché la prefazione della sua biografia vergata proprio da McCartney. La sfilza dei grandi nomi che hanno attinto da lui sia dal punto di vista strettamente musicale che nella gestione del palco è davvero sterminata, basti solo pensare a un giovane Jimi Hendrix a servizio nella sua band, a Elvis Presley, ai Creedence Clearwater Revival, a Prince e ai Rolling Stones, con cui condivise il palco più volte e di cui nelle movenze di Mick Jagger, si avverte l’eco della fisicità dell’afroamericano. A far divenire oltre trenta i milioni di copie di dischi vendute in carriera, ha concorso non solo l’epoca aurea fino agli anni Cinquanta, ma anche la capacità di rimanere valido dal punto di vista artistico nel corso del tempo.
Nonostante i due ritiri nel 1957 e nel 1977 dovuti a motivazioni di tipo religioso e di abusi di sostanze, Little Richard ha continuato a farsi valere. Nei Seventies riuscì ad imporsi come icona del periodo revival del r’n’r, piazzando in classifica lo spettacolare blues funk di Freedom Blues e il morbido soul blues di In the Middle of the Night. Negli anni Ottanta tornò sulla cresta dell’onda dapprima con la dirompente biografia The Life and the Times of Little Richard del 1984 – da cui è estratta la citazione a inizio articolo – e due anni dopo con la pellicola Down and Out in Beverly Hills di Paul Mazursky, a cui era legato l’ottimo singolo Great Gosh A’mighty!. Nel 1992 inoltre pubblica per conto della Disney, il disco di musica per bambini Shake it All About.

HALL OF FAME
A solidificarne il profilo come icona pop appartenente al mondo dello showbiz a stelle e strisce, hanno contribuito, sempre dagli anni Ottanta in poi, una lunga serie di riconoscimenti e premi, primo tra tutti l’inclusione nel 1986 nella Rock and Roll Hall of Fame, oltre che a una sempre corposa presenza sia sul piccolo che sul grande schermo, tra talk show, pubblicità, serie tv e ruoli cinematografici. Ma alle spalle dell’icona lucente e sgargiante del successo, ha ancor più valore la nascita e lo sviluppo della figura artistica del cantante e pianista: nell’appartenenza alla comunità african american si rintraccia tutto quello che lo ha reso celebre.
Penniman venne alla luce il 5 dicembre nel 1932 a Macon, Georgia, da una famiglia che scontava in pieno oltre che l’epoca buia della Grande Depressione, tutte le brutalità della segregazione razziale. Un forte senso di religiosità permeava i suoi genitori, il che lo portò sin dalla prima adolescenza a cantare nella locale African Methodist Episcopal Church, con il gruppo gospel di casa, The Penniman Singers. Mentre rimaneva colpito da icone musicali come il cantante gospel Brother Joe May e la blueswoman Sister Rosetta Tharpe, quest’ultima mentre si esibiva a Macon lo invitò a cantare con lei sul palco, in contemporanea rimaneva affascinato da un bislacco predicatore di zona, tale Dottor Nobilio. Non solo: il mondo dei minstrel show lo attendeva dietro l’angolo, nelle vesti di Doc Hudson e il suo Medicine Show. A soli sedici anni Richard lasciò la famiglia per seguire questo strambo personaggio, cantando classici come Caldonia mentre il venditore ciarlatano rifilava olio di serpente a masse di sprovveduti, proponendolo come un unguento miracoloso. Gli eventi iniziarono a scorrer via sempre più veloci. Grazie alla frequentazione assidua del chitlin’ circuit, divenne in breve il cantante della B. Brown Orchestra, dove il leader lo ribattezzò «Little Richard». A seguito di questa esperienza entrò nel giro degli spettacoli di vaudeville e di conseguenza, con la comunità gay di colore ivi impegnata: lo Sugarfoot Sam, il King Brother Circus e le Broadway Follies. Nel frattempo non mancava di seguire i suoi eroi, uno su tutti Billy Wright, noto come «The Prince of the Blues», da cui mutuò il caratteristico taglio di capelli, ed Esquerita, vera e propria icona gay del mondo rhythm’n’blues dell’epoca, da cui apprese appieno i segreti del piano blues.
Sintetizzando al meglio l’infinito percorso artistico e il progressivo e doloroso affrancamento come icona gay, Penniman ha costruito la leggenda di Little Richard, a cui ha affidato le sue speranze migliori, come cantava in Freedom Blues: «I hope that I should live to see/When every man can know he’s free» (Spero di poter vivere per vedere il giorno in cui ogni uomo saprà di essere libero).