Primo fine settimana del festival. Tra i giudizi votati dai critici francesi sull’edizione quotidiana di «Le film français» è comparsa un’altra Palma d’oro, dopo quella di Annette, al film di Ozon, Tout s’est bien passé votato da «Le Parisien». E mentre nel Palais svuotato dai casier (caselle stampa) trasferiti online e con un nuovo maquillage dopo i lunghi mesi di pandemia che lo avevano trasformato nel rifugio dei senza tetto si aggirano i festivalieri storditi dalla bulimica griglia della programmazione, fuori le strade della cittadina sulla Costa Azzurra sono invase dai dai vacanzieri abbronzati in cerca di divi nel relax.
Ieri sulla Croisette sono arrivati gli altri due film italiani – oggi sarà la volta di Tre piani di Nanni Moretti – Re Granchio, alla Quinzaine des Realisateurs, ballata di antiche leggende della Tuscia firmata da Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, già registi di Il Solengo (2015). E alla Semaine de la Critique Piccolo corpo, esordio di Laura Samani, che è anche una delle più belle proposte viste questi giorni (producono Nadia Trevisan e Alberto Fasulo) e la rivelazione del talento di una nuova regista nel cui sguardo si intuisce un senso del cinema denso, permeato da una spiritualità che passa per la terra, il corpo, i legami del cuore, il sentimento.

È UNA STORIA di donne quella che racconta Samani nel segno di un amore materno più forte del mondo e dei suoi dogmi che impediscono alla giovane Agata di seppellire la figlioletta nata morta condannandola al limbo. «La rivedrò?» chiede la ragazza al prete. Forse nei sogni è la risposta. E se il marito ha già buttato il cadaverino sotto terra confidando nel futuro di altri figli, lei non si rassegna: a quella bimba che non vedrà mai crescere vuole dare la possibilità di sepoltura, di avere un nome, di andare in paradiso. Le dicono che c’è un luogo lontano, a nord, una chiesa dove ridanno vita ai nati morti, quell’istante che permette loro di essere vivi per battezzarli. Siamo in un’Italia antica, ai primi anni del secolo scorso, tra superstizioni e leggende popolari, le lampadine elettriche sono delle «diavolerie» e per le donne muoversi sole è un rischio, Agata non si è mai allontanata dall’isola di pescatori, e si dice che da quel luogo «miracoloso» non si torna indietro.

NEL BOSCO in cui la giovane protagonista si perde col suo doloroso fardello sulle spalle (è Celeste Cescutti, molto brava) troverà un amico, Lince, una strana creatura che somiglia a un folletto (Ondina Quadri) e come loro è selvatica e imprevedibile, che divide con lei la strada, questo viaggio che come ogni viaggio è disseminato di incontri, tradimenti, scoperte.
In questo paesaggio acquatico tra cielo e terra le due ragazze camminano seguendo i passi di un legame indissolubile e, soprattutto, di un «femminile» che cerca anch’esso il proprio respiro.
«Ci hanno tolto ogni cosa» dice una donna, che si rivelerà essere una «banditessa» e che assalta il carro su cui Agata veniva portata via per venire «venduta» come nutrice a una ricca famiglia. I luoghi sono il Friuli, la lingua il dialetto friulano e veneto che si intreccia a altri idiomi, il tempo remoto è fuori dal tempo, quei posti misteriosi si fanno anch’essi protagonisti, rispecchiando gli stati d’animo e il movimento dei personaggi che li attraversano, che poi è quello del cinema, verso una diversa consapevolezza di sé, verso una trasformazione, verso la libertà della vita lungo la linea ambigua e incerta che la separa dalla morte.
Samani racconta che il film nasce dalla scoperta di un santuario a Trava, in Friuli, dove è nata (1989) in cui si ridava il respiro ai neonati nati morti. Era forse solo una «favola» e una pratica condannata dalla chiesa come una forma di stregoneria, eppure i santuari erano disseminati ovunque. Un miracolo? Ma cosa sono i miracoli?
E su questa sospensione la regista costruisce la proprian narrazione del mito: quanto vediamo è il percorso di due persone, un lutto che si elabora, il bisogno di trovare una parte di sé, e la definizione complice di questo «femminile» che per affrontare il mondo deve inventare altri orizzonti. Il film assume il rischio di una materia molto difficile trovandone la misura: il bordo su cui si pone è quello di un’emozione tesa, sensibile, che procede passo dopo passo, nella meraviglia e nella paura.

COSA È ALLORA il «miracolo»? Forse l’incontro, la vicinanza, il riconoscersi di due solitudini in una nuova conoscenza che sfugge all’ordine nel quale una donna è rinchiusa. O è la possibilità per questo femminile di trovare una sua parola, di declinare una lingua in cui riconoscersi, una poesia di esistenze negate. Ci vuole delicatezza, e la regia di Samani non cerca mai di imporre un contenuto, una visione: il suo orizzonte come quello in cui si muovono i suoi personaggi rimane aperto, preferisce interrogare piuttosto che dare risposta. E affidarsi alla grana intensa delle sue immagini, a un gesto di cinema potente che vibra e rivela un sentimento che ci appartiene.