Fa sempre un certo effetto leggere il ritratto di un personaggio storico da bambino. Il fascino è dato tutto dalla sensazione di osservarne la vita da una visuale straordinariamente privilegiata. Quella di chi ascolta l’incipit di una storia ma già ne conosce il finale ed è tentato di individuare nei lineamenti acerbi un anticipo di biografia.

Non sfuggono a questa sensazione i piccoli principi celebrati da Anton Raphael Mengs nel corso della sua carriera. Boemo di nascita e romano d’elezione, il pittore visse nel costante confronto con l’Antico, contribuendo a teorizzare i principi figurativi del Neoclassicismo: l’ideale si sarebbe imposto sul reale, la dottrina accademica sul dato sensibile, la simmetria sulla naturalezza. Mengs non poteva che considerare allora il ritratto come un genere di compromesso, un necessario bagno di verità, alternativo alla grammatica neoclassica, che lo riportava anzi a brillantezze rococò altrimenti rigettate.

Quando, poi, a posare per lui capitavano rampolli dall’infanzia insidiata dalla ragion di stato è chiaro che l’artista si ponesse il tema della coerenza. Come adeguare lo spirito infantile al conformismo di un’immagine dinastica? Il Ritratto di Ferdinando IV di Borbone del Museo Nazionale di Capodimonte ne è un esempio. Nove anni e già uno scettro, quello del Regno di Napoli, nel pugno. Il pittore risolve il contrasto attraverso un accorto dosaggio di luci e trovate prospettiche, dedicando al principino una realtà su misura che lo toglie dall’impaccio dell’inadeguatezza anagrafica. La sua licenza poetica si esprime perciò nello scardinare le rigidità cerimoniali, facendo leva su una tenerezza certamente ispirata a Raffaello e ad Antonio Allegri da Correggio, i maestri che avevano modellato la sua forma mentale sin dal battesimo.

Con maggiore evidenza si possono verificare tracce di questa sensibilità nei ritratti dei figli del Granduca Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena che Mengs dipinse a Firenze nel 1770. Era stato Carlo III di Spagna, il nonno dei piccoli, a inviarlo nella capitale toscana. Lì sua figlia, l’Infanta Maria Luisa, si era stabilita e aveva dato alla luce i quattro eredi della superalleanza dinastica Asburgo-Borbone: Maria Teresa, Francesco, Ferdinando e Maria Anna. Dopo una fugace esposizione pubblica, quei ritratti erano stati prontamente recapitati a Madrid e sono oggi nelle collezioni del Prado. Non aveva avuto tutti i torti il pittore genovese Carlo Giuseppe Ratti, al seguito dell’artista nella sosta toscana, a lamentare la frettolosità con cui quei capolavori avevano lasciato l’Italia, perché solo alla memoria oculare di pochi era stato concesso il privilegio di ricordarne la bellezza.

La piccola mostra I nipoti del re di Spagna (a cura di Matteo Ceriana e Steffi Roettgen), a Palazzo Pitti fino al 7 gennaio, è l’occasione giusta per risarcire il pubblico italiano di quella mancanza e fare il punto sul secondo soggiorno fiorentino del Mengs (la prima volta c’era stato ventenne, al fianco del leggendario Giacomo Casanova), durante il quale poté confermare intatta la sua devozione al Sanzio, ma anche maturare un’esperienza visiva e tattile inedita con il Rinascimento preraffaellesco (con il Masaccio della Cappella Brancacci al Carmine e con Domenico Ghirlandaio su tutti).

Tutto ruota attorno al Ritratto doppio di Ferdinando e Maria Anna. In fondo, è la sua presentazione ufficiale, dopo l’acquisto sul mercato antiquario, la ragione prima dell’esposizione. Al suo fianco sono stati radunati i ritratti madrileni dei piccoli arciduchi e quelli dei genitori e dei nonni (compresa la maestosa effigie dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria insieme a marito e figli, e tra questi un giovane Pietro Leopoldo). Il tutto a formare una galleria di volti e pose che instaura un inevitabile parallelo con la serie familiare medicea del Sustermans di qualche sala appresso. I nobili pargoli ne sono assoluti protagonisti. Fissano tutti dritto verso lo spettatore, stabilendo un muto dialogo col nonno lontano. A guardarli non si fatica a credere nella commozione che colpì Carlo III alla loro scoperta. Non tragga però in inganno questa natura leziosa. Prima che bambini, erano pur sempre principi, e lo strascico di spille e titoli d’onore che li accompagna è tutt’altro che una gioia del travestimento infantile. Goffi interpreti di una precoce attitudine al governo, nei loro sguardi è evidente lo spaesamento per essere stati tirati già a forza nella società del potere.

Rispetto agli altri, il nuovo ritratto offre una visuale differente e segna un cambio di registro. Non so se dipenda dalla sua natura incompleta, con dettagli scarnificati e poco o nulla coltivati, ma la composizione ha una vena informale, quasi divagante. Al netto delle corrispondenze somatiche, qui la disciplina è allentata. La bambina è sì artificialmente in piedi su un corpo che non è il suo, ma l’individualità sembra sovrastare sulla figura sociale. Nel compenetrarsi complice delle manine col fratello maggiore tradisce la pretesa impassibilità, lasciando filtrare una narrazione emotiva e una freschezza pittorica inedite a tutte le immagini contemporanee e successive degli arciduchi fiorentini. Basta valutare ancora il successivo Ritratto di Francesco del tedesco Johann Zoffany (in prestito dal Kunsthistorisches Museum di Vienna) per apprezzarne la singolarità: il principino, già ingrigito, spicca nitidamente nel cortile di Palazzo Pitti, portatore di un’austerità polverosa. Niente a che vedere col pupazzo bonario di qualche anno prima.

Con i ritratti dei nipoti del re di Spagna Anton Raphael Mengs disegna la geografia dell’Europa che sarebbe stata. Contro ogni previsione, quei bambini si sarebbero avviati a una sorte tutt’altro che placida: Francesco avrebbe preso le redini dell’Impero asburgico, Ferdinando quelle del Granducato. Non si direbbe proprio che sulle spalle di questi graziosi piccini sarebbe pesato il governo di un continente sconvolto dalla Rivoluzione francese e da Napoleone.