Ad inizio del 1900 un giocatore americano di baseball divenne celebre per una particolarità: giocò una partita senza scarpe. Quell’episodio renderà immortale Joe Jackson, per tutti «shoeless», più che per i suoi successi avuti a Philadelphia, Cleveland e Chicago, sponda White Sox. Nell’estate del 1957 un gruppo di ragazzini messicani partirono da Monterrey alla volta del confine americano; attraversarono quel confine a piedi, camminarono per una ventina di miglia prima di arrivare a una città. Quel gruppo di ragazzi, qualche mese dopo, vinse la Little League Baseball indossando sempre la stessa divisa. Il 10 settembre 1960 tutto il mondo, con gli occhi puntati sulla maratona olimpica di Roma spinse un etiope senza scarpe, Abebe Bikila, alla conquista dell’oro sotto l’Arco di Costantino.

Cinquantatre anni dopo un altro gruppo di descalzos entra nella leggenda dello sport. È la storia dell’incredibile successo della formazione giovanile di basket della comunità indigena Triqui della Sierra di Oaxaca (una delle zone più povere del Messico) alla quarta edizione del Festival del basket infantile giocato a Cordoba, in Argentina. Guidati dal coach Sergio Zuniga, i bimbi prodigio messicani hanno vinto tutte le partite giocando scalzi come vuole la tradizione della comunità indigena dalla quale provengono. La parola «triqui», di fatto, non ha significato ma secondo uno studio si pensa che possa essere riferita a «gente che è uscita dal fondo della terra».

Partita dopo partita

La squadra composta da otto bambini è stata subito ribattezzata «topolini scalzi del Messico» e «i giganti scalzi della montagna» e, partita dopo partita, hanno sbaragliato la concorrenza conquistando il cuore dei tifosi presenti a Cordoba. Nell’ordine hanno battuto Celestes Argentina (86-3), Universidad de Cordoba (22-6), Gorriones (3-1), Central Argentina (72-16), Hindù (82-18), Monteèis (44-12) e Regatas de Mendoza (40-16) nella manifestazione che ha visto la presenza di 8mila mini atleti provenienti da Bolivia, Brasile, Argentina, Cile, Venezuela, Uruguay e, appunto, Messico. Un successo che gli ha permesso di conquistare anche il pass per i Mondiali della loro categoria anche se prima parteciperanno alla Copa del Caribe in Repubblica Dominicana: un trionfo nel trionfo visto che, ora, tutto il mondo potrà vederli all’opera. Hanno vinto il torneo per ragazzini di età compresa tra 10 e 12 anni, nonostante fossero i più bassi della manifestazione (altezza media di 1 metro e 40 centimetri) hanno sbalordito per la loro velocità, forza e resistenza.

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A guidarli c’era un uomo diventato un piccolo santone a Oaxaca: Sergio Zuniga più che un coach è un secondo padre: «È un onore poter dimostrare che questi bimbi possono aggrapparsi a una speranza nonostante il loro destino sia di vivere ai limiti della fame. Hanno mostrato una luce col loro coraggio e la “fame” di vincere che li separa dalla realtà. Grazie al basket tutti hanno ripreso a studiare; lo sport è solo il pretesto per avvicinarli alla scuola, che è l’obiettivo principale. La fame e la povertà sono state le loro armi per arrivare fin qui; volevano dimostrare quanto fossero bravi nonostante i problemi che vivono quotidianamente. Perché giocano scalzi? Nella vita di tutti i giorni sono scalzi e non cambiano idea neanche quando giocano. Hanno dimostrato sul campo da basket quello che manca alla nostra nazione: carattere, fermezza, forza interiore. I miei ragazzi, spero, siano d’esempio al Messico e a me stesso: tutto è possibile».

La squadra si allena in un campetto all’aperto che diventa una piscina di fango quando piove e non nei palasport che siamo abituati a vedere. Ma loro sono sempre lì, senza scarpe, a correre e saltare. Per migliorare la resistenza fisica prendono un compagno sulle spalle e salgono i gradini che tagliano le strade delle loro cittadine. Se giocano è anche grazie al progetto messo in piedi dalle istituzioni locali. La Commissione del Governo dello stato di Oaxaca appoggia questo programma dando scarpe (che pochi utilizzano), uniformi e stipendi mensili (circa 46 dollari a bimbo). Per entrare nella squadra «triqui» bisogna mantenere la media del 8.5 a scuola (su scala da 0 a 10), parlare la lingua madre e aiutare la famiglia nei lavori di casa. Questa selezione sperimentale conta 40 bambini e 5 sono di sesso femminile.

Campi o piste di atterraggio?

Il basket tra gli indigeni, però, ha avuto inizio sulla fine degli anni Ottanta quando il governo di Carlos Salinas de Gortari appoggiò la costruzione di campi di pallacanestro in determinate zone del paese. In realtà la mossa di Salinas de Gortari era approfittare di questi campi per far atterrare gli aerei militari atti a contrastare il fenomeno dell’Eznl che stava prendendo piede in Chiapas. Gli indigeni, però, hanno sfruttato questi “aiuti” per rilanciare il loro onore.

Oltre ai triqui, anche i tzotziles, i tarahumara e i tzeltates chiapanecos si sono appassionati a questo sport. Il Messico aveva bisogno di una favola per risollevarsi dagli insuccessi e dalle vergogne del calcio ma, soprattutto, dalla crisi sociale ed economica che l’ha investito da tempo. Sono stati accolti come degli eroi a Santa Cruz Xoxocotlàn dove, ad attenderli all’aeroporto di Oaxaca, c’erano un centinaio di indigeni triqui appartenenti al Movimento Unificatore della Lotta Triqui (Mult) e dell’Assemblea dei popoli indigeni (Api).

Un successo cavalcato dai potenti. La politica non si è fatta scappare l’occasione per far vedere un lato, quasi inesistente, di integrazione sociale. La Camera dei Deputati ha riconosciuto il successo dei bambini come un trionfo nazionale tributando un minuto di applausi prima di una seduta. Il deputato del Pri, Gerardo Francisco Liceaga ha salutato la vittoria «dei ragazzini poveri a cui nessuno fa caso». Il collega di partito Carlos de Jesus Alejandro ha promesso lo stanziamento di nuovi fondi e risorse sia per questa squadra che per mini atleti di altre zone di estrema povertà. Per loro si è scomodato anche il presidente della Repubblica Enrique Pena Nieto che ha celebrato questa fantastica impresa sportiva tramite Twitter: «Le vittorie della squadra triqui sono un orgoglio per tutto il popolo messicano». Ma è arrivata l’immediata replica di Gabriela Garcia Ramirez, personaggio di spicco del Mult, che ha accusato il governo di «non occuparsi veramente di questi ragazzi, adesso che tutto il mondo li conosce si è ricordato di loro».

Parole dei grandi nel gioco che ha esaltato i piccoli giganti della montagna. Il basket come palestra di vita e di speranze. Il piccolo atleta Ernesto Merino si fa portavoce del team quando dichiara: «Il pallone da basket lo vediamo come un’opportunità di vita, di crescita umana». Fernando Leon Felix ha chiara la chiave dei loro successi: «Diamo sempre il cuore in campo, quando giochi così non puoi perdere. Nessuno si deve dare per vinto in partenza, noi di Oaxaca e messicani possiamo brillare ovunque». Rigoberto Lopez prende spunto dal recente successo della nazionale maggiore ai Panamericani: «Se loro ce l’hanno fatta, potevamo farcela anche noi. Infatti abbiamo vinto e ora vogliamo diventare campioni del mondo», ha detto con il sorriso contagioso che solca il suo viso indigeno.

Continueranno a correre scalzi verso un canestro, a correre lontano dalla fame della loro terra, alla conquista di un sogno. Scalzi nel gioco inventato da Naismith. Scalzi per ridare orgoglio a popolazioni umiliate per troppo tempo. Scalzi per far vedere un’altra faccia del Messico; la faccia pulita di bambini che giocano per ripulire l’immagine di una nazione piombata nella guerra tra i cartelli della droga. Un orgoglio che si legge negli occhi di piccoli giganti del basket entrati nella leggenda della loro comunità. La favola degli ultimi che diventano primi.