Tra le molte sollecitazioni sparse nelle pagine del romanzo di esordio di Valentina Maini, La mischia (in uscita da Bollati Boringhieri, pp. 512, € 18,50) c’è una visione della letteratura che viene espressa dal personaggio di un editore francese intento a sfogarsi contro gli scrittori che fanno del loro ruolo sociale un’ossessione: «La bella scrittura genera mostri» – afferma. E, a precisare meglio quel che si aspetta: «Cercami una storia se sei capace». In una cornice narrativa più interna a quella principale, i due protagonisti raccontano le loro vicende, in momenti diversi, a uno stesso scrittore, personaggio tra i più squallidi del romanzo. Per Maini, è chiaro, la metaletteratura funziona come strumento per incentivare la consapevolezza del lettore sul rapporto realtà-finzione.

Affollato da una discreta quantità di personaggi, La mischia è plurale anche nei linguaggi adottati, nella varietà di punti dei vista ai quali l’autrice riesce a dare timbri diversi. Il primo capitolo, per esempio, si avvale di una scrittura visionaria, mirata a creare confusione prima di tutto rispetto al confine tra realtà e allucinazione, e – ancora – rispetto a ciò che divide la vita dalla morte, nella esplicitazione di quel dualismo costitutivo dell’esistenza, che è una delle luci capaci di animare il romanzo.
Gorane, una dei protagonisti, abita questo confine tra la vita e la morte rifiutando ogni forma di vitalità, nonché l’unica forma possibile di esistenza approvata dai suoi genitori, militanti dell’Eta, la lotta armata. Jokin, suo fratello gemello, cui è dedicato il secondo capitolo, vive sul crinale tra la vita e la morte, perché ha aderito alla condotta familiare ma non la tollera: «mi invitavano a provare qualche pasticca, cocaina, le droghe che giravano abitualmente ai nostri party, ma io non sentivo bisogno di quella combustione artificiale, ma di acqua, acqua sulle mie membra infuocate». La voce narrante del terzo capitolo è affidata ai genitori, tra i componenti della famiglia coloro che occupano a maggior titolo lo spazio tra la vita e la morte, uno spazio nel quale sono rimasti forse incastrati, come accade, si dice, ai fantasmi.

Sebbene La mischia sia riconducibile al filone dei romanzi che hanno per protagonista una famiglia, acquista una sua peculiarità per la forza dei personaggi, due terroristi pluriomicidi e due gemelli, di cui uno eroinomane e l’altra capace di scrivere al contrario, indagati con una maturità riflessiva che si applica a questa particolare storia per trarne dinamiche esistenziali comuni ai più, piccole verità condivise: «Avremmo dovuto pensare è importante il pane la domenica al parco qualche divieto ogni tanto regole da sgarrare. Avremmo dovuto pensare è importante l’amico di scuola la nonna i compiti a casa fatti come si deve il calcetto vedere il cielo. Non abbiamo dato loro né terra né regole ma un sistema buono dentro cui pensare».

Nei personaggi di Yera e di Inaki, genitori di Gorane e Jokin, Marzia Maini descrive due anziani che ripetono ossessivamente le stesse cose, due rivoluzionari che hanno fatto dell’ideologia della libertà il dogma della loro esistenza e di quella dei loro figli, un dogma non solo potenzialmente, ma effettivamente distruttivo. Ma l’autrice sembra considerare la possibilità di allungarsi in uno spazio imprevisto rispetto ai fatti della vita che hanno determinato i diversi destini dei personaggi, quei fatti remoti che entrano nella stanza dello psicoanalista Jespersen, il quale – proprio grazie all’incontro con Gorane – passerà da una pratica freudiana all’incontro con la psicologia analitica di Jung; mentre i protagonisti sperimentano via via a una chance trasformativa che li porta a forme di resistenza disarmata.