Con le Olimpiadi di Rio che si aprono proprio oggi e quelle di Tokyo 2020 molto distanti nella mente degli appassionati, ma non così tanto nei pensieri dei giapponesi, è utile dare uno sguardo ai giochi che furono ospitati dalla capitale giapponese nel 1964. Le olimpiadi sono un evento talmente enorme che può essere letto dalle angolature più differenti: l’edizione del 1964 è stata per il Giappone e la sua capitale anche un modo per forzare e giustificare una modernizzazione che comunque prima o poi sarebbe arrivata. Alcune innovazioni ancora oggi danno lustro all’arcipelago, su tutte lo Shinkansen, il treno superveloce che è diventato il simbolo dell’avanguardia tecnologica rappresentata dal Sol Levante.
Ma i giochi sono stati anche la scusa per una scriteriata modernizzazione, che nella sua sbornia di futuro e cambiamento a tutti i costi ha lasciato non poche zone oscure.
Questa ambivalenza che accompagna tutti i grandi avvenimenti, ma specialmente quelli sportivi, si riflette molto bene in alcune pellicole giapponesi uscite nel periodo, come controparte di quel grande spettacolo celebratorio e pietra miliare del genere che è «Tokyo Olympiad» (1965), documentario sportivo fra i più famosi di ogni epoca, girato da Kon Ichikawa.

E anche altri due importanti documentari vennero girati in quello stesso periodo. «On the Road: a Document», girato da Noriaki Tsuchimoto proprio nel 1964, è un’opera che cattura letteralmente i cambiamenti urbanistici della città nell’imminenza dei giochi. Con uno stile veloce e quasi da free jazz,il documentario incapsula nella sua breve durata i mutamenti di Tokyo visti dalla strada e nello specifico dai tassisti, e tutti i problemi causati dalla feroce modernizzazione. Una sorta di poema cacofonico sul tumulto di perenne costruzione che caratterizzava la Tokyo del periodo. Più direttamente legato alle Olimpiadi stesse è «Record of a Marathon Runner» di Kazuo Kuroki, documentario che segue la preparazione alla gara di Tokyo di un giovane maratoneta giapponese, Kenji Kimihara, che in seguito sarebbe diventato un nome importante nella disciplina.

Il tono del documentario però non è affatto celebrativo o finanche sportivo: il film parte del paesaggio urbano dei sobborghi di Kita Kyushu, dove Kimihara si allena pur lavorando in una fabbrica durante il giorno. Il grigiore del panorama e del tempo invernale è riflettuto nelle parole piuttosto distaccate e secche del commento e dell’atleta stesso e il tutto è sublimato da una musica quasi drammatica e dalla monotonia ipnotica della corsa. A metà del documentario queste premesse cupe trovano la loro ragion d’essere quando Kimihara si infortuna e la sua partecipazione all’evento sportivo è messa in discussione, alla fine però riuscirà ugualmente a prender parte alla maratona di Tokyo e a piazzarsi all’ottavo posto.

Siamo di fronte a un documentario promozionale, girato con i soldi della Fuji, che però permette a Kuroki di esprimere la sua forte voce autoriale: proprio partendo da questo lavoro il regista avrebbe in seguito realizzato capolavori quali «Silence Has No Wings» e «Ryoma Assassinasion». Questi due documentari minori quindi, assieme al più famoso «Tokyo Olympiad», ci dicono come la grandezza dell’evento olimpico racchiuda in sè un mondo: le competizioni sportive, le derive politiche e sociali con tutti i relayivi scandali, ma anche, se non soprattutto, quelle piccole storie del singolo atleta che di solito si perdono nella vastità della manifestazione o nell’eccesso di critica verso di essa.

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