Una volta sembra appalesarsi la Terza guerra mondiale, un’altra prevale il chiacchiericcio politichese: dalle esternazioni continue di Renzi, agli incontri di Arcore, ai mal di pancia di Fitto, e così via. Insomma, il mainstream della comunicazione televisiva è dominato dalle sequenze seriali della crisi italiana, raccontata spesso con la vecchia logica dei «pastoni». I temi internazionali – considerati di bassa audience – entrano nella scena mediatica quasi esclusivamente come momenti di eccezione, divenendo meritevoli di cura quando vi sono stragi, morti (ma devono essere molto numerose se non sono nel cuore dell’Occidente), rischi di conflitti globali.
Il caso dell’Ucraina è tristemente l’esempio del meccanismo che assegna alle news «lontane da casa» la funzione di ospiti più o meno graditi dell’agenda setting.

Tant’è che, prima della serata di ieri resa “calda” dal vertice di oggi a Minsk, negli ultimi otto giorni l’Ucraina non ha mai aperto i sette telegiornali generalisti, spuntando solo otto degli oltre duecento titoli delle diverse edizioni (quattro su La7, due sul Tg1, uno a testa su Tg2 e Tg3, zero su Mediaset – dati dell’Osservatorio sui Tg diretto da Alberto Baldazzi).

E la Grecia – soprattutto dopo la schiacciante vittoria di Tsipras – è un elemento della querelle con Bruxelles e non la protagonista di una richiesta di cambiamento generale. Del vento che percorre anche la Spagna.

La tragedia dei migranti ricorre, ma è inclusa nell’eterna discussione sulle misure preventive da prendere.

Purtroppo la tendenza è questa e la stessa critica – così attenta ad analizzare generi e sottogeneri – pare perdere di vista l’essenziale: vale a dire il carattere amaramente provinciale di grande parte dell’informazione classica (certamente Sky e Rainews sono obbligate a tenere il ritmo e l’ampiezza del «flusso»).

Nel parlare della riforma della Rai il capitolo della proiezione internazionale è pressoché rimosso. Si evoca come un ritornello la Bbc, ma forse sfugge che lì i tg sono soprattutto politica estera e se a Cameron sono concessi trenta secondi è grasso che cola.

Neppure sembra occuparsi della questione la «Risoluzione sull’informazione», in fase di esame presso la Commissione di vigilanza.

Nel susseguirsi di bozze – sulle quali è legittimo porsi qualche interrogativo, dopo la conclamata richiesta di eliminare l’influenza dei partiti sulla Rai – non pare che trovi spazio il richiamo all’urgenza di un servizio pubblico che indossi il mondo come la propria pelle, per evocare McLuhan.

Perché non c’è una «all news» in inglese, per competere con gli altri broadcaster? Così, la televisione (in sinergia con i social) acquisterebbe autorevolezza verso pubblici sempre meno attratti dalla liturgia dei tg. Ci voleva il Papa di Roma per reintrodurre nel lessico «normale» la categoria della guerra permanente, che costituisce – ahinoi – un elemento costitutivo di una globalizzazione squilibrata e non governata democraticamente.

Anche il nuovo contratto di servizio tra lo Stato e la Rai avrebbe bisogno di un «bagno in Arno», per rapportarsi al mappamondo.
Tra l’altro, che fine ha fatto il testo? Si sta, per caso, inverando il timore espresso quasi un anno fa da «Ri-mediamo», per cui l’articolato verrà varato quando il triennio della sua vigenza sarà già scaduto?

Infine, un piccolo mistero. La Rai partecipa ad «Euronews» ma non ne usa materiali e immagini? E come mai lo straordinario lavoro dell’inviata sui teatri di guerra, Lucia Goracci, è utilizzato quasi solo da Rainews?