Matteo Renzi rottama le banche popolari e buona parte di quell’ultimo barlume di cooperazione e di collegamento con il territorio che era rimasto nel sistema creditizio italiano. Con una mossa non del tutto attesa, il consiglio dei ministri di ieri ha dato il via libera al cosiddetto «invest compact» voluto da Pier Carlo Padoan. A parte alcune misure di contorno – come la portabilità dei conti che dovrebbero portare a far pagare agli istituti le spese di chiusura conto – il centro del decreto prevede che le 10 maggiori banche popolari esistenti in Italia con attivi sopra gli 8 miliardi – dal più grande al più piccolo: Banco Popolare, Ubi, Bper, Bpm, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Popolare di Sondrio, Creval, Popolare dell’Etruria e Popolare di Bari – hanno 18 mesi di tempo per diventare società per azioni.

Per Renzi la ratio del provvedimento è semplice: «Abbiamo troppi banchieri e troppo poco credito», «il nostro sistema bancario è solido, sano e serio, ma ha bisogno di avere elementi di innovazione», ha aggiunto il premier. Renzi ha poi assicurato: «Non c’è un intervento sulle banche di credito cooperativo, non si tratta di danneggiare la storia dei piccoli istituti, ma di fare in modo che le banche italiane siano all’altezza delle sfide», ha detto.

Ma la fine della voto paritario e il rischio che le 10 banche vengano fagocitate dalle super banche, perdendo il contatto col territorio sono tutt’altro che trascurabili. Fino ad ora, in assemblea per le «popolari» vigeva il principio «una testa un voto», per il quale ogni socio ha lo stesso peso indipendentemente dalla quota di capitale azionario detenuta. Con la trasformazione in società per azioni invece i soci maggiori avrebbero molto più peso, potendo decidere senza tener conto delle esigenze del territorio. Un passaggio che aprirebbe anche all’aggregazione degli istituti maggiori.

Nel complesso il sistema delle «popolari» conta 70 istituti (quindi 60 sono fuori dalla riforma) con 1,34 milioni di soci e un totale di attivi da 450 miliardi. In Italia le sole banche popolari rappresentano il 28% del sistema complessivo, e, se analizzate congiuntamente alle banche cooperative, arrivano a sfiorare il 40%. Ma sono queste che durante la crisi hanno assicurato credito alle piccole medie imprese in misura molto maggiore rispetto alle grandi banche: i 5 maggiori gruppi hanno dimezzato l’ammontare dei prestiti concessi, contro l’aumento fatto registrare proprio dalle banche cooperative.

Già lunedì sulle azioni Bpm e del Banco Popolare, passando per Ubi e Bper, gli acquisti erano piovuti copiosi – e molti manager avevano venduto le loro azioni, mangiandosi le mani alla notizia dei nuovi rialzi dopo l’ufficializzazione del provvedimento – e anche ieri i titoli delle banche popolari alla Borsa di Milano hanno continuato l’impennata.

Le polemiche politiche sul provvedimento arrivano soprattutto da destra – le inchieste giudiziarie da Firenze in poi hanno dimostrato come Verdini e soci avessero in mano molte banche popolari – e dal M5s. Raffaele Fitto chiede addirittura a Piero Grasso – presidente facente funzioni – di non firmare il decreto. (massimo franchi)