Il trauma psichico è spesso molto più profondo e duraturo di quello fisico, specie se si tratta di minori. L’ultima tragedia mediterranea ha consegnato agli operatori di Terre des Hommes a Lampedusa (dove sono impegnati nel progetto «Faro III») altre storie di sofferenza e privazioni sulle quali brilla la stella nera della consapevolezza che il futuro migliore che avevano sperato, e che li aveva spinti ad affrontare il viaggio, muore con parenti e amici su questo tratto di mare che li separava dall’Europa, terra promessa.
Un gruppo di minori arrivati a Lampedusa racconta a caldo la loro esperienza di reclusione e tortura in Libia. Tutti sono stati in carcere o trattenuti nelle case dei trafficanti dove venivano costantemente maltrattati (molti di loro mostrano le cicatrici provocate con ferri roventi, tubi di plastica e cavi elettrici) semplicemente perché i loro genitori hanno inviato i soldi in ritardo. Alcuni di loro hanno, probabilmente, 12, 13 anni, forse meno, ma questo lo sapremo solo dopo gli accertamenti sanitari. Le famiglie hanno investito su di loro tutti i risparmi, perché sono giovani e hanno la vita davanti. Ma adesso, sulla banchina del porto questa vita sembra tutta alle loro spalle. Raccontano di avere mangiato per un mese solo un panino al giorno. Alcuni ti dicono di non riuscire a pensare a nulla ora, perché dopo quello che hanno provato vogliono solo riposare in un posto protetto e non gli sembra ancora possibile essere sopravvissuti. Cercano con gli occhi del ricordo i parenti e gli amici scomparsi in mare, ogni tanto sentono una voce che li chiama, ma poi scuotono la testa come per svegliarsi e ripiombano da una sogno nella cruda realtà dell’abbandono. Tutti dicono che sono stati picchiati, torturati.
Un ragazzo mostra (ridendo) un dito completamente nero, oramai necrotizzato: è stato un ferro rovente. Uno di loro dice: «Ti fanno odiare te stesso e la vita. La sofferenza è così tanta che hai desiderio di morire. Non puoi ribellarti. Prima di partire lo sapevo che erano degli ignoranti, che non hanno studiato, ma non immaginavo che la violenza potesse essere così assoluta». Un altro parla come tra sé: non avrebbe mai pensato di provare quello che gli aveva raccontato il suo bisnonno sulla schiavitù; adesso sa che la schiavitù non è finita, esiste ancora. «Noi siamo qui perché vogliamo essere liberi, non maltrattati e usati come in Libia». Ricordano le raccomandazioni dei genitori: «Guarda sempre avanti, non dimenticarti mai di chi ha meno di te, non prendere ciò che non ti appartiene, segui sempre le regole…». Alcuni raccontano del momento in cui sono partiti, della difficoltà a lasciare i propri genitori e del timore che hanno avuto nel corso del viaggio di non poterli rivedere; ora i loro incubi peggiori si sono realizzati. Tutti vogliono studiare, diventare insegnanti, avvocati, ingegneri. Uno dei bambini vuole diventare un medico otorino perché nel suo villaggio molte persone hanno dei piccoli problemi alle orecchie che, proprio perché non curate, ci dice con matura convinzione, ne creano altri più gravi. Riesce ancora ad articolare questo ragionamento, ma poi si guarda intono e resta in silenzio.
Sono storie che si assomigliano tutte, oramai attraverso di esse è possibile tracciare una mappa esattissa di come i trafficanti di esseri umani organizzano il loro commercio, dove sono i punti di raccolta, da dove vengono le persone trafficate, e anche di quanto ci guadagnano i trafficanti. Per stroncare, a almeno ridimensionare, il fenomeno del traffico di minori, è fondamentale rafforzare le misure di accoglienza e dare alle organizzazioni umanitarie la possibilità di entrare in contatto immediato con i nuovi profughi, profughi e non clandestini come dice la legge vigente, e soprattutto con i bambini, che spesso scappano alle maglie dell’assistenza e vengono arruolati nelle file della criminalità organizzata. L’anno scorso, secondo una nota del Ministero degli Interni, si erano perse le tracce di circa la metà dei minori stranieri non accompagnati sbarcati in Italia.
Questi sbarchi dimostrano che esiste un’emergenza costante a cui il sistema Italia-Europa deve dare una risposta permanente fondata sull’apertura di canali umanitari a partire dalle zone di raccolta dei richiedenti asilo, cioè in Africa. Riprogrammare il mandato di Frontex, che con i suoi mezzi deve trasformarsi in una reste di protezione e accoglienza. Il diritto umanitario ci impone, infine ma non per importanza, di assicurare loro una rapida assistenza psicologica, oltre che sanitaria, e aiutarli a rimarginare le ferite profondissime che traumi di questo tipo necessariamente producono. I bambini migranti nel mondo in fuga da guerre, povertà e violenze, secondo i dati più recenti sono quasi 21 milioni (fonte Unhcr). I numeri parlano da soli, ma la politica non risponde.