Nel giugno del 1930 Picasso acquista un piccolo castello a Boisgeloup, vicino a Gisors nell’Eure, poco a nord della strada Parigi-Rouen-Dieppe, a circa sessanta chilometri dalla capitale. È un edificio in pietra di concezione semplice, di ordine classico, risalente al Seicento, ma ricostruito nel Settecento, dopo un incendio. È circondato da un bosco, il «bois jaloux», e collegato alla piazza di Gisors da un lungo tunnel, costruito durante la Guerra dei cento anni: Picasso lo fa ostruire, per tenere a distanza, oltre agli intrusi (un genere sempre più presente nella sua vita di artista universale), gli eventuali, improbabili «predatori alla ricerca del chimerico tesoro dei Templari», e, insieme, «gli orrori del passato» (virgolettato dal biografo John Richardson).
Gli snervanti traslochi
Con l’acquisto del castello di Boisgeloup termina la lunga stagione ambulante di Picasso, costretto ogni estate, cambiando residenza e luogo di lavoro, a faticosi e snervanti traslochi, appesantiti dall’abitudine, sin dagli anni giovanili, di trascinarsi dietro tutto il suo armamentario: un’abitudine più apotropaica che funzionale. Dinard, Cannes, Juan-les-Pins, ogni spostamento estivo rappresentava per Picasso, oltre che la puntualizzazione del suo momento sentimentale, una tappa del percorso creativo. Sin dagli anni del Bateau-Lavoir, sappiamo l’importanza che riservava alla vacanza e all’ambiente connesso, una dimensione che nella nascita del cubismo, nel legame pre-guerra con Braque (e con Derain), ha assunto valore assoluto. La vicinanza con Braque si rinnova a Boisgeloup, che dista non molti chilometri da Varengeville, nei dintorni di Dieppe, dove questi passa le estati. Picasso, sospetta Richardson, nutriva il desiderio di tornare a confrontarsi con l’amico di gioventù in modo diretto e operativo, ma Braque non era dello stesso avviso. Persiste sottotraccia, nel malaguegno, un bisogno di sodalizio, come a rinverdire la stagione bohémien della Butte: bisogno che nei primi anni trenta si realizza, in minore, attraverso la persona di Julio Gonzalez.
Nella patria dei Duchamp
Con Boisgeloup, in ogni caso, subentra un diverso modo di vivere e operare: la stanzialità. Nelle scuderie Picasso installa l’atelier, assai spazioso, che gli permette di aprire una nuova pagina, all’insegna soprattutto della scultura, di medio e grande formato. Intorno a questo effervescente laboratorio si sviluppa la mostra Boisgeloup, l’atelier normand de Picasso, aperta fino all’11 settembre al Musée des Beaux-Art di Rouen: Picasso nella patria dei Duchamp! La mostra descrive, con essenzialità e con prestiti d’eccezione, un cambio di rotta complesso e contrastato, dove le circostanze biografiche si intrecciano nel modo più enigmatico all’emergere di forme inusitate. Il travaglio creativo – che sboccherà in un momentaneo, tragico stallo, riempito soltanto dai tentativi poetici di marca surrealista – è, come al solito in Picasso, supremamente velato dalla facilità realizzativa, ancora più facile di sempre per il recupero fantastico della linea curva di tradizione liberty. A dare il destro alla curva è la presenza ormai stabile, nella vita di Picasso, di Marie-Thérèse Walter, che gli era ‘apparsa’, bionda diciassettenne, nel gennaio 1927, davanti alle Galeries Lafayette: «Mademoiselle, lei ha un volto interessante. Vorrei farle il ritratto. Sono Picasso». Ma il ritratto tarderà (il primo noto data ’32), forse perché Picasso, legato in matrimonio con Olga Koklova, non vuole suscitare sospetti.
Il periodo di Boisgelup, che terminerà nell’autunno ’36 con la separazione ufficiale da Olga e la sofferta cessione a lei dell’intera proprietà (al posto dell’atelier, la rimessa delle moto del figlio Paulo), è tutto sotto il segno della crisi matrimoniale e del nuovo impegno sentimentale con Marie-Thérèse, che nell’ottobre ’35 darà a Picasso una figlia, María de la Conceptión, al secolo Maïa.
Le parole di Brassaï
Nel volto di Marie-Thérèse l’attaccatura diretta della parte superiore del naso con la vasta superficie frontale dà luogo alla creazione plastica di un tipo che non tarda ad assidersi, regalmente, nella già ricca teoria di organismi figurali picassiani. Queste teste di donna, in gesso, in bronzo, in cemento, con per naso una protuberanza elefantiaca, non tardano ad affollare, insieme al resto, l’atelier di Boisgeloup: doveva essere un colpo d’occhio impressionante, di cui in mostra si può avere solo un vago ricordo. Vengono in aiuto le parole di Brassaï, che per il primo numero della rivista «Minotaure» (giugno 1933) realizzò un servizio fotografico sugli studi di Parigi e Boisgeloup. Giunto sul luogo, Picasso gli spalancò dinanzi la porta di una delle stalle: «In tutto quello splendore bianco – scrive Brassaï – ci trovammo a contemplare un popolo di figure scolpite». La prevalenza del bianco dipende dall’utilizzo godurioso del gesso nei calchi originali.
Con i busti ispirati a Marie-Thérèse, e con i nudi femminili, con gli animali (il gallo), Picasso tornava alla scultura dopo i collages e le costruzioni di oggetti della prima metà degli anni dieci. Adesso è interessato al modellato pieno, che gli dà modo di ricomprendere, dentro una soluzione di masse arrotondate e convesse, di linee ampie e falcate, l’intero repertorio delle sue varie maniere, dal cubismo al neoclassicismo, dal surrealismo a certo espressionismo. L’enigma riposa nella fusione, quanto mai spontanea, di cronaca e mito, di circostanza biografica ed espansione antidiluviana. Idem sul versante pittorico, dove le fattezze di Marie-Thérèse destano altrettanto pace pomeridiana nel riposo abbandonato, a pieni colori, e incubo metafisico, come nei due grotteschi assemblaggi di parti anatomiche sul fauteuil rouge, che, giunti dal musée Picasso di Parigi, aprono la mostra di Rouen: qui si vede come il surrealismo di Picasso scarti allegramente dal vincolo di scuola, cioè dalla letteratura, per rendersi funzionale all’organicità della forma.
L’insieme dei dipinti di questa stagione incanta per l’agilità con cui l’artista passa dalla forma piatta, tutta giocata su allusioni concettuali di spazio, alla volumetria risentita, che rimanda ai grossi nudi del momento neoclassico. C’è tempo per divertimenti feriali, che subito trapassano in singolare mitologia, come la serie delle modelle che leggono, scrivono, disegnano, strettamente connessa al ciclo dei disegni con lo scultore nel suo studio. La grafica vive un momento felice, fra le guizzanti acqueforti delle Metamorfosi di Ovidio e le illustrazioni della Lisistrata di Aristofane, dove il registro di commedia trova perfetta corrispondenza nel brio lineare di remota radice ingresiana.
Ma, captati dagli svariati richiami stregoneschi che l’esposizione offre, risulta ben chiaro come, accanto alla «modellazione fatta di dorsali e di valli, che dà alla forma l’immobilità e la mutevolezza d’un monte nel giro del sole» (Argan), si faccia largo la linea di ricerca, tutta spezzature e contrasti, che avrà per esito, nell’estate del ’37, le realizzazione di Guernica. Un fiammante incunabolo è rappresentato dal piccolo olio su legno con La morte del toreador, dipinto a Boisgeloup il 19 settembre ’33: già vi è definito il tipo del cavallo di Guernica. Questa drammatizzazione fa perno su due soggetti: la corrida (riscoperta, in questo periodo, durante i due viaggi di Spagna), e il minotauro, che si saldano nella celebre Minotauromachia della primavera 1935, incisa in acquaforte nel momento – «il peggiore della mia vita» – in cui Picasso, tormentato dalle complicazioni connesse al possibile divorzio da Olga, smette di dipingere. Anche in questo caso l’opera si fa specchio trasfigurante della biografia, la quale, motore di rabbia creativa, dà ala a un magico trasalimento, popolato di minacciose figure archetipiche: figure che poi, a loro volta, funzioneranno da dolente ‘grido’ storico-politico.
Un’ulteriore opzione formale è stabilita nel sodalizio con Julio Gonzalez, lo scultore di Barcellona che Picasso aveva frequentato a Parigi negli anni della fame: insieme a Manolo, Roig e altri catalani si riuniva intorno al desco dei Gonzalez, Julio e il fratello maggiore Joan. Ritrovatolo nel marzo ’29, in vista di un aiuto per il progetto del monumento a Apollinaire, sviluppa una collaborazione con lui che ha per teatro, in particolare, l’atelier di Boisgelpoup. È l’oggetto di una piccola mostra collaterale al musée Le Secq des Tournelles, sempre a Rouen: Gonzalez/Picasso, une amitie de fer, fino all’11 settembre. Di Gonzalez a Picasso interessa soprattutto la capacità di librare esili forme nello spazio attraverso la saldatura, come nel Don Chisciotte, capolavoro di economia espressiva, che è proprio del ’29. Si fa aiutare nell’esperire la nuova tecnica e nel sondare virtù e resistenze dei materiali metallici, in primis il ferro: «Tu lavori il metallo come un pane di burro». Fabbro lirico, Gonzalez coopera, anche eseguendo direttamente, al trastullo odierno di Picasso: l’ibridazione, in manufatti squillanti di ironia fino alla caricatura