Lo psicodramma da un mese in onda a Twitter sembra in parte essere funzione delle idiosincrasie e megalomanie di un singolo miliardario, ma la crisi dell’azienda è tutt’altro che un caso isolato. A Silicon Valley tira un’aria che non si respirava da almeno vent’anni, dal crack del dot.com che la decimò nel 2000-2001. Oltre ai 3.700 licenziati da Twitter, Amazon ha annunciato la riduzione di 10.000 posti di lavoro, Meta, casa madre di Facebook manderà a casa 11.000 dipendenti. Intel, Cisco, Microsoft, Lyft… L’elenco si allunga ormai a dismisura. Dall’inizio del 2022 l’emorragia ha superato i 120.000 posti di lavoro complessivi.

GLI ANALISTI invocano un’autocorrezione necessaria con l’allentamento della pandemia. Per le piattaforme infatti i lockdown sono stati una manna. Mentre l’economia reale veniva devastata, e-commerce, streaming ed ogni tipo di servizio online beneficiavano di un bacino di consumatori prigionieri senza alternative agli acquisti e le visioni a domicilio e naturalmente le ore passate sui social. La pandemia ha dunque messo il turbo ad una crescita costante già da anni: i colossi digitali nel 2020 e 2021 hanno registrato un’impennata dei fatturati ed un proporzionale aumento delle assunzioni. L’organico Amazon ad esempio oggi è sei volte quello di sei anni fa, la forza lavoro di Meta è cresciuta del 500%, quella di Netflix è triplicata. Nella Silicon Valley, è noto, la crescita è vangelo più sacro perfino dei guadagni, ma tassi così esponenziali non si sono rivelati sostenibili, specie alla luce del riorientamento dei consumi verso beni e servizi tradizionali.

LA PRIMA AVVISAGLIA di una flessione si è avuta ad aprile quando Netflix ha registrato il primo calo di abbonati in un decennio. La perdita di 200.000 iscritti è costata all’azienda 50 miliardi di dollari in capitalizzazione. Il titolo del colosso streaming ha perso il 35% del valore ed è tornato alla valutazione di tre anni prima. Le ripercussioni su Wall Street naturalmente sono un dato costante per un settore così paradigmatico della finanziarizzazione che caratterizza l’attuale fase capitalista. La Silicon Valley è sempre stata un motore di speculazione, generatore di guadagni fondati su proiezioni ed aspettative di venture capitalist – investitori in startup senza utili ma con grandi idee, pronti a scommettere su Opa fantasticamente sopravvalutate in cambio di titoli maggiorati. Si tratta dopotutto dell’industria che ha creato i bitcoin, capolavoro di commodity immateriale e volatile, come dimostrato dalla recente bancarotta della Ftx, azienda di trading in criptovaluta fondata da Sam Bankman-Fried. La storia del miliardario ventenne, oggi nullatenente, è emblematica di un complesso digitale-industriale portato agli eccessi quando non alla truffa vera e propria, ad esempio quella della Theranos di Elizabeth Holmes Theranos, appena condannata ad 11 anni di prigione per frode industriale.

SILICON VALLEY sulle bolle predicate su redditività “da favola” in un certo senso ci vive, e sulle novità sempre più nuove. È dunque un’industria con difficoltà congenite nel rapportarsi alla maturità. Ma i principali prodotti ormai maturi lo sono: l’iPhone ha 15 anni, così anche Youtube, il motore di ricerca Google ha esordito 20 anni fa. È per questo che Zuckerberg scommette tutta la sua azienda sul Metaverso, nuova «grande novità virtuale» necessaria a futuri finanziamenti, ma tutt’altro che certa. Anche le piattaforme come AirBnb e Uber, hanno spremuto molto – forse tutto – lo spremibile dalla gig economy e dalla monetizzazione di network connettivi.

L’ATTUALE CRISI insomma, più che una semplice “correzione” economica indotta dallo spettro di una recessione, potrebbe essere sintomo di problematiche più profonde e fisiologiche. Comincia a farsi avanti l’idea che il «contenimento dei costi», come si è chiesta Vox, possa essere indizio di un «reset culturale». Potremmo insomma avvicinarci ad un necessario ripensamento sul ruolo del capitalismo delle piattaforme, non solo perché ormai incapace di garantire gli utili da favola che esige Wall Street, ma per manifesta nocività del suo business model. La privatizzazione ad oltranza di settori come la comunicazione e l’informazione si sono rivelati particolarmente perniciosi per la stabilità democratica. Lo stesso dicasi dell’appalto massiccio della gestione di dati personali a piattaforme for profit. Qualche giorno fa, sull’Atlantic, Ian Bogost si chiedeva se non si sia dinnanzi alla «fine dell’era social», o quantomeno all’inizio di una fine – auspicandola ed invocando una «disintossicazione» sociale simile a quella avvenuta col tabacco.

LE TOSSINE in questo caso sarebbero le storpiature che discendono dall’oligopolio digitale, quelle del «capitalismo della sorveglianza» descritto da Shoshana Zuboff: la libertà normativa sulla privacy accordata alle piattaforme ed il mastodontico commercio di dati che ne consegue. Il monopolio concesso loro anche nell’interesse di mantenere un controllo americano su internet. Ed il “caos epistemico” provocato dalla distribuzione asimmetrica dell’informazione in casse di risonanza gestite da oligarchi – per tornare al caso didascalico di Twitter – volubili ed onnipotenti. Il modello insomma che ci ha dato Brexit e il golpe di Trump e che appare ogni giorno meno sostenibile.