Quando si parla di droghe, raramente si prende in considerazione ciò che circonda la coltivazione delle piante necessarie per la produzione di eroina, cocaina e marijuana. Pochi sanno infatti che quegli arbusti e i loro fiori sono stati inclusi nelle tabelle della convenzione dell’Onu sulle sostanze psicotrope del 1961.

Come ammette l’Ufficio dell’Onu per le droghe e il crimine, che annualmente produce un Rapporto Mondiale sulle droghe, la coltivazione di piante illecite spesso aiuta i piccoli agricoltori a far fronte alla scarsità di cibo di zone economicamente depresse e compensa l’imprevedibilità dei mercati agricoli ormai interconnessi a livello trans-nazionale. Trattandosi però di attività illegali l’economia che dipende da quelle coltivazioni non è chiaramente sostenibile nel lungo periodo e lascia gli agricoltori nelle mani di intermediari senza scrupoli o li rende direttamente dipendenti dei trafficanti di droga. A queste variabili negative occorre aggiungere la costante minaccia dell’eradicazione forzata delle colture da parte del governo o di organismi internazionali. La regione andina, buona parte della costa sud-orientale del Mediterraneo e vaste zone dell’ex triangolo d’oro e dell’Afghanistan sono le regioni più interessate da questo fenomeno di «agricoltura proibita». Tutte regioni in cui l’economia si basa pressoché esclusivamente sull’agroalimentare.

Malgrado decenni di ingenti investimenti per ridurre l’offerta delle piante illecite, la loro produzione globale non accenna a diminuire. Infatti, quando si riesce ad avere un impatto significativo sulla riduzione di una coltura in un determinato paese, in particolare per quanto riguarda la foglia di coca, nel giro di pochi mesi l’Onu rileva che la coltivazione si è semplicemente spostata nel paese vicino. La distribuzione geografica della produzione del papavero è più radicata e in costante aumento in Afghanistan, con un significativo ritorno strutturale anche in Myanmar.

Dal 2003, due anni dopo l’intervento armato degli Stati uniti, l’Afghanistan è tornato a essere il principale coltivatore di papaver somniferum con circa il 74% della produzione di oppio per eroina per un totale globale di oltre 236.000 ettari. Nel 2013, a seguito di raccolte importanti in Birmania e Laos, ma anche in Messico e Colombia, si è registrato il record assoluto della produzione di oppio illecito.

Il contrasto alle colture illecite viene inoltre perseguito con la promozione di progetti di «sviluppo alternativo» per sostituire colture lecite a quella di coca, papavero e cannabis. Dopo alcuni successi ottenuti negli anni Novanta in Perù, e recentemente in Bolivia, quando questi progetti non sono più sostenuti economicamente si nota un ritorno ai prodotti illeciti di gran lunga più lucrativi.

A fronte di questi fallimenti del proibizionismo globale la comunità internazionale non ha mai avviato una riflessione su come affrontare il problema in modo alternativo. Eppure, oltre alla trasformazione in stupefacenti, o a far parte di tradizioni, riti sacri e diete millenarie, la foglia di coca, il seme di papavero e la pianta della cannabis possono essere utilizzate anche per la produzione di medicinali per la cura del dolore, tanto è vero che le Convenzioni ne prevedono una produzione limitata.

Da oltre dieci anni, l’Organizzazione Mondiale della Salute denuncia come l’80% della popolazione mondiale, cioè oltre 5 miliardi e mezzo di persone, non abbia alcun accesso a prodotti analgesici: che si aspetta quindi a legalizzare le colture illecite per consentire una produzione di medicine per i poveri del mondo?