Il segretario di stato Mike Pompeo è atterrato ieri a Tel Aviv, proveniente dal Kuwait, poche ore dopo la notte di sangue in Cisgiordania. Oltre all’uccisione da parte dell’esercito israeliano di Omar Abu Leila, il 19enne autore degli attacchi armati in cui domenica sono morti un soldato e un colono, altri due palestinesi sono stati uccisi dai militari a Nablus. Per gli israeliani Raed Hamdan, di 21 anni, e Zaid Nouri, di 20, erano due “terroristi” e avevano lanciato un ordigno esplosivo contro una pattuglia di militari incaricata di sorvegliare i circa mille coloni che martedì notte sono andati a pregare al sito della Tomba di Giuseppe, alla periferia di Nablus. I palestinesi negano con forza la versione israeliana. I due giovani, affermano, sono giunti per caso nella zona presidiata dall’esercito che ha fatto subito fuoco contro la loro auto uccidendoli. Centinaia di abitanti di Nablus ieri hanno partecipato ai funerali di Hamdan e Nouri ed è stato proclamato per domani un “Giorno di rabbia” in tutta la Cisgiordania in risposta alla loro uccisione. Sempre ieri, a Gaza i movimenti islamici Hamas e Jihad hanno annunciato manifestazioni lungo le linee con Israele con centinaia di migliaia di persone per il primo anniversario della Grande Marcia del Ritorno il prossimo 30 marzo.

Pompeo è di nuovo in giro per il Medio oriente per proseguire il lavoro di tessitura e consolidamento del fronte anti-Iran che passa anche per la fine dello scontro tra Qatar e Arabia saudita. Appena messo piede in Israele ha suggellato un patto con Netanyahu per contrastare gli «atti di aggressione» di Tehran. La tappa in Israele è anche un appoggio indiretto dell’Amministrazione Trump alla campagna elettorale dell’alleato premier israeliano che il 9 aprile punta a riconfermarsi alla guida del paese. Netanyahu tra una settimana sarà accolto alla Casa Bianca dal presidente americano. Il tour di Pompeo nella regione serve anche verificare il gradimento riscosso dal piano Usa per il Medio oriente e il conflitto israelo-palestinese, l’Accordo del secolo, che nei giorni scorsi l’inviato speciale e genero di Trump, Jared Kushner, ha illustrato ai leader arabi in anticipo sulla presentazione ufficiale prevista dopo il voto in Israele.

Il piano, secondo le indiscrezioni, non prevede l’indipendenza per i palestinesi sotto occupazione militare da quasi 52 anni anni ma solo l’autonomia per Gaza, accompagnata da investimenti miliardari per la costruzione di infrastrutture, in modo da creare un numero cospicuo di posti di lavoro. Ai palestinesi verrebbe imposta, con la pressione degli arabi, la rinuncia al diritto al ritorno per i profughi. Secondo il Jerusalem Post, Kushner teorizzerebbe inoltre scambi territoriali tra Arabia saudita e Giordania. L’obiettivo degli Usa è strappare l’appoggio dei leader arabi in modo da isolare i palestinesi che respingono la mediazione americana e un piano nettamente sbilanciato a favore di Israele. I frutti di questo lavoro ai fianchi cominciano a vedersi in pubblico e non solo dietro le quinte. Dopo l’incontro avuto ieri con Pompeo, il ministro degli esteri del Kuwait, Sheikh Sabah al Khalid al Sabah Kuwait, si è detto «fiducioso» nel ruolo di Washington «volto a preparare un piano di pace per israeliani e palestinesi». Abdelmunim Said, noto editorialista dello storico quotidiano cairota al Ahram, ora megafono del regime di Abdel Fattah el Sisi, l’altro giorno non ha esortato gli arabi a respingere il piano Usa in modo da rispettare la posizione palestinese. Al contrario ha invitato gli arabi a negoziare un suo miglioramento. In quel caso verrebbe cestinata l’iniziativa araba del 2002: il riconoscimento di Israele in cambio della restituzione dei territori palestinesi e arabi occupati nel 1967.