Se il Sud è un’emergenza nazionale, ci vuole un piano per il Sud. Ottima idea quella del ministro Provenzano. Con quest’ultimo piano cambia qualcosa? Sorvolando sulla copertina che, inspiegabilmente, ritrae il golfo di Trieste, l’incipit è condivisibile.

«Investire al Sud oggi significa pensare all’Italia di domani». Perché «il progressivo disinvestimento ha indebolito anche il Nord che indietreggia in Europa». Bisogna «riaccendere il motore interno» dello sviluppo nazionale, che significa più domanda domestica a fronte di una domanda estera che risente della congiuntura internazionale, coronavirus compreso.

NEGLI ULTIMI 10 anni – si fa notare nel documento – la spesa per investimenti della pubblica amministrazione nel Mezzogiorno si è più che dimezzata, passando dai 21 miliardi del 2008 agli attuali 10,3. Confrontando questo dato con i numeri dell’Agenzia per la Coesione Territoriale, viene fuori che nel periodo di riferimento gli investimenti pubblici sono crollati ovunque, ma al Sud in misura maggiore che nel resto del Paese. Giù la spesa, aumento esponenziale del fenomeno migratorio. Tra il 2002 e il 2017 il Mezzogiorno ha visto fare la valigia a ben 640 mila giovani, dei quali 240 mila con laurea. «La vera emergenza è la nuova emigrazione» (scritto in maiuscolo nel Piano).

ABBANDONO, spopolamento, desertificazione economica. Quanto basta per cambiare registro. Per questo il governo vuole «un’immediata mobilitazione di risorse, finanziarie, amministrative e umane». Ma ad una condizione: «senza gravare di maggiori oneri la finanza pubblica e agendo sul riequilibrio della spesa ordinaria». Tutt’al più si può puntare sull’«accelerazione della spesa aggiuntiva», oltre che sull’attuazione delle misure già previste nell’ultima legge di bilancio.

Significa che il Piano potrà contare solo sugli stanziamenti in essere e, ovviamente, sulla programmazione e la spesa dei fondi comunitari per il prossimo settennio, comprensivi di cofinanziamento nazionale.

PER IL PRIMO triennio, infatti, quasi tutto è demandato al «recupero della capacità di spesa» su fondi esistenti e al «salvataggio» di risorse comunitarie a rischio di tornare indietro. Il nuovo ciclo 2021-2027 dei fondi europei, che vale 123 miliardi, tenendo conto anche dei 5 miliardi messi sul piatto dal governo, diventa così «la grande occasione». Come se vent’anni di programmazione dei fondi europei, almeno da Agenda 2000 in poi, non ci fossero mai stati.

SIAMO SEMPRE lì: il Mezzogiorno merita attenzione, ma ancora più cura merita il bilancio dello Stato. Ancora Keynes fuori dalla porta. Gli investimenti si fanno con i soldi che ci sono. Bruxelles e Francoforte sono stati chiari sul punto: chi ha margini di bilancio spende, chi no stringe la cinghia, anche a costo di deprimere l’economia e abbandonare ad un destino infausto interi territori. Nel Piano c’è scritto che è intenzione del governo «dare ossigeno ai comuni, in particolare a quelli piccoli e medi», stanziando 300 milioni per il triennio 2020 -2022, per tutti i comuni delle otto regioni del sud! Più che ossigeno, acqua fresca, visto lo stato in cui versano le finanze degli enti locali, soprattutto di quelli periferici, che pure si dice di voler aiutare rilanciando la «strategia per le aree interne».

NON VA MEGLIO analizzando il documento dal lato delle «missioni». Scuole aperte, innovazione e connessioni veloci, crediti d’imposta, incentivi fiscali, semplificazioni amministrative, sgravi contributivi, il Mediterraneo. Le solite cose. Lo ammettono anche i suoi estensori: «La vera discontinuità è nel «metodo».

Non nella quantità di risorse stanziate, né nella tipologia degli interventi previsti, ma nella centralizzazione di una serie di attività connesse alla sua attuazione, anche mediante l’istituzione di «comitati di indirizzo» e presidi nazionali per ciascuna missione.

Perché il Mezzogiorno contribuisca a riattivare il «motore interno» servono risorse aggiuntive, investimenti ad ampio raggio, soldi ai comuni e nuove assunzioni nella pubblica amministrazione, negli ospedali, negli enti di ricerca. Gli incentivi alle imprese non servono in territori dove non c’è domanda, non c’è lavoro, non ci sono soldi da spendere. E su cui incombe l’Autonomia differenziata. Ma nel Piano di quest’ultima, per ovvie ragioni, non se ne parla.